domenica 9 giugno 2024
Avanzano partiti di destra ed euroscettici. La maggioranza tra Ppe, socialisti e liberali può reggere. Ma i conservatori in crescita possono cercare una nuova alleanza con i popolari. Tante incognite
Macron

Macron - Ansa

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Quella che esce dalle urne del 9 giugno 2024 è un’Europa che guarda più a destra di 5 anni fa e, soprattutto, manda un segnale di stop al processo di integrazione premiando, per quanto dicono i dati ancora parziali, i partiti più scettici sul processo di delega a Bruxelles delle decisioni più importanti per il continente.

A livello complessivo, potrebbe però essere ancora “obbligata” la cosiddetta maggioranza Ursula che votò nel 2019 Von der Leyen a capo della Commissione europea, ovvero popolari, socialisti e liberali. Le proporzioni cambiano, tuttavia, con un successo dei popolari (trainato da tedeschi e spagnoli) e un calo dei socialisti (con l’eccezione olandese), più secca la frenata dei liberali, anche per il tracollo dei macroniani francesi (a Parigi si andrà a elezioni anticipate, il risultato per ora più importante della tornata elettorale).

Sarà però da capire come le due famiglie in crescita, Conservatori e riformisti (di Meloni) e Identità e democrazia (con Le Pen), gestiranno il risultato: il secondo raggruppamento potrebbe avere un rimpasto significativo (ha espulso a fine legislatura i tedeschi di AdD), mentre il primo potrebbe provare a convincere il Ppe a formare un’alleanza di centrodestra. Molto importanti saranno quelli che attualmente sono i “non iscritti” alle principali famiglie politiche europee, stimati come terza forza e prevedibilmente corteggiati da tutti per ottenere i loro consensi.

La percentuale di affluenza alle urne veniva indicata alla vigilia come uno dei fattori chiave per valutare il grado di interesse e partecipazione che le istituzioni comunitarie suscitano nei cittadini della Ue. Cinque anni fa la partecipazione complessiva al voto era stata del 50%, il leggero ulteriore calo a circa il 48%, sotto la metà dei potenziali elettori, conferma la tendenza a non considerare l'espressione della propria preferenza politica come rilevante e significativa. Si sconta, ovviamente, una tendenza discendente che tutte le democrazie mature stanno osservando in questi anni.

Il voto per il Parlamento europeo è stato inevitabilmente un test importante per governi, maggioranze e opposizioni in tutti i 27 Stati della Ue. In alcuni, in particolare, ha assunto un’importanza centrale. Dell’Italia Avvenire.it si occupa in un altro articolo.

In Francia, il primo grande e più clamoroso scossone di questa tornata elettorale. Il Rassenblement National di Marine Le Pen è di gran lunga il primo partito con il 32%. Una novità assoluta le cui conseguenze sono ancora tutte da valutare. Alle politiche del 2022 aveva raccolto il 17% al secondo turno piazzandosi dietro il partito del presidente Macron e il cartello delle sinistre. La coalizione Ensamble del capo dell’Eliseo dal 38%, nella forma più ristretta di Renaissance, precipita al 15% con la poco carismatica capolista Valérie Hayer, mentre i socialisti di Raphaël Glucksmann ottengono un buon risultato al 14%.

Per Parigi è uno choc ampiamente previsto dai sondaggi ma comunque dirompente adesso che si concretizza con i voti realmente espressi dai cittadini. Un presidente sempre più attivo nel sostegno militare all’Ucraina si trova di fatto in forte minoranza rispetto a una formazione di destra che è stata filo-putiniana e ora è solo tiepidamente schierata con la resistenza ucraina ma ancora sospettata di rapporti amichevoli con il Cremlino. Hanno pagato le tematiche identitarie, euroscettiche, anti-immigrazione e anti-politiche verdi tipiche di Le Pen, che ha però ammorbidito i toni e cercato di assumere un profilo da leader internazionale, nella sua corsa di lungo periodo verso la presidenza. Non a caso il capolista del RN Bardella ha chiesto elezioni politiche anticipate e subito Macron ha annunciato lo scioglimento dell'Assemblea nazionale cercando di cavalcare la situazione e riprendersi la scena. Un'impresa che si annuncia molto difficile. La sua scommessa è su una riedizione del "fronte repubblicano" per ribaltare nelle elezioni del 30 giugno i rapporti di forza nel Paese, forse puntando sull'aumento dell'affluenza.

In Germania, la seconda scossa tellurica dalle urne. A Berlino, l’esecutivo di coalizione guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz, stando ai primi risultati, esce con le ossa rotte e vede fortemente ridimensionato il suo consenso. La Spd, che 5 anni fa aveva raccolto solo il 15% per poi risalire di dieci punti alle politiche del 2021, crolla al suo peggiore risultato di sempre, intorno al 14%. La Cdu dal 24% di tre anni fa vola verso il 30%, seguita dalla destra di Alternative für Deutschland salita oltre il 16% come secondo partito del Paese. Le formazioni che sostengono Scholz rappresentano oggi una minoranza, dato che i Verdi sono fermi al 12%. Alla fine, AfD - partito che aveva visto scandali, ombre di legami con la Russia, dichiarazioni negazioniste sulla Gestapo e il regime hitleriano - ha smentito i sondaggi che lo davano in frenata rispetto a picchi potenziali dei mesi precedenti. Malgrado le mobilitazioni di piazza contro Alternative für Deutschland, cui ha partecipato persino il presidente della Bundesbank Nagel, una parte del Paese, soprattutto nell’Est, ha scelto questa forza antisistema che progettava una re-immigrazione forzata di stranieri dalla Germania verso i Paesi di origine.

In Belgio il premier Alexander De Croo, in lacrime, ha annunciato le dimissioni per i risultati deludenti della sua coalizione. In Spagna, i popolari superano i socialisti al governo; in Polonia, coalizione civica supera di misura il Pis. In Austria, la destra del Fpoe diventa la prima forza e punta al governo. In Ungheria, Orbán vince ma perde terreno e l'opposizione di Magyar prende forza.

Erano annunciate come le prime elezioni europee in tempo di guerra. Ancora non sappiamo quanto abbia pesato il fattore bellico, ma certamente può essere stato uno dei principali fattori su scala continentale a orientare il voto. Che, come sempre, segue logiche nazionali, più o meno accentuate, dovute al fatto che ogni singolo Paese ha proprie liste e gli elettori sono chiamati a scegliere tra i partiti e i candidati della loro nazione.

Erano anche le elezioni che la Russia aveva esplicitamente detto di volere influenzare – con mezzi più o meno leciti – sostenendo le forze che sono meno favorevoli al sostegno militare dell’Ucraina e meglio disposte verso il Cremlino. Sarà facile per Vladimir Putin, oggi, paragonare l’astensionismo europeo al quasi 80% di votanti che è stato dichiarato in marzo per la sua elezione plebiscitaria. Ovviamente, la trasparenza del voto non è paragonabile. Sarà interessante capire nelle prossime settimane quanto può avere pesato la propaganda alimentata da Mosca sul risultato complessivo e di singole liste nello specifico. Certo, sono in crescita le forze che sono meno orientate a sostenere Kiev, cosa che non potrà che rallegrare il Cremlino.

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