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Il testo che pubblichiamo qui sotto è un estratto del libro “Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti” (Raffaello Cortina Editore, pagg. 212, euro 16), dello psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e docente di psicologia all’Università Bicocca di Milano e all’Università Cattolica. Si tratta di un testo che conclude la trilogia iniziata nel 2021 con “l’Età tradita” e proseguita nel 2023 con “Sii te stesso a modo mio”. In questo nuovo saggio l’esperto riprende e sviluppa alcuni dei temi già trattati nei volumi precedenti. Parla del disagio giovanile, quello che rimane come rumore di fondo, spesso solo accennato, e quello che sfocia in episodi di violenza, in “atti disperati – scrive – da interpretare non solo come segnale di paura, anche come spia dell’assenza di prospettive e della ricerca di visibilità”. In un mondo in cui tutto cambia troppo rapidamente, in un mondo di postnarcisismo e di ipernarcisismo, senza più riferimenti stabili condivisi, proibire, vietare non serve a nulla, spiega l’esperto, se non ci dedichiamo a comprendere il loro disagio e le loro richieste di autenticità. Come quelle che riguardano le relazioni che stanno cambiando e assumono forme diverse dal passato. Un male? No, osserva Lancini, “è il frutto che oggi raccogliamo per aver instillato nelle menti delle nuove generazioni quanto sbagliata e problematica sia la dipendenza dall’altro. Non è lontano il momento in cui la vera prevenzione dalle relazioni tossiche sarà non avere più relazioni”. O, almeno, relazioni come noi le intendiamo. Anche il sesso appare sempre più distante dalle reali preoccupazioni e dagli interessi principali delle nuove generazioni. In un paragrafo di grande interesse Lancini spiega il progressivo allontanamento dei giovanissimi dall’amore erotico, con il concetto di corpo sempre più legato a parametri estetici e non più “strumento” di desiderio sessuale.
Tutte le ragazze e tutti i ragazzi hanno un estremo bisogno di una madre, di un padre o di un insegnante che li ascolti autenticamente e stia in relazione con loro. Un adulto capace di rispecchiare il valore che ciascun adolescente ha, le sue risorse, i talenti, le specificità che lo contraddistinguono e che saranno la sua cifra stilistica. Quando non vi fosse apparentemente traccia di tutto questo, il compito dell’adulto è quello di stare con il dramma dell’adolescente, aiutarlo a pensarlo e a trovare le parole per esprimerlo, non certo attraverso la mortificazione, la bocciatura e la punizione. Promuovete e sostenete il loro Sé, state in relazione con ciò che loro hanno a disposizione e così farete molto per loro. Fatevi riconoscere e convocare come adulti. Questa è per me la vera educazione, tutto il resto è solo didattica.
In una società in cui molti adolescenti scelgono di allontanarsi, la vera speranza, quella che può davvero fare la differenza nella vita di ciascuno, risiede proprio nella relazione.
Ed è così soprattutto oggi, a fronte di un numero crescente di giovani (si stima tra il 5 e il 15 per cento degli adolescenti, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità) che soffre di solitudine o, come sempre più spesso accade, di solitudini al plurale – da quella emotiva, che si manifesta quando mancano legami profondi e intimi, a quella sociale, che emerge dalla povertà di interazioni e di contatti con gli altri, a quella esistenziale, la più profonda e insidiosa, che porta a svalutare la propria vita, anche se si è circondati da amici o persone care. Ognuna di queste non solo genera un’angoscia indicibile, ma comporta anche gravi rischi per il benessere e la salute, fisica e mentale, dell’individuo. Tra questi, l’Oms cita malattie cardiache, depressione, disturbi del sonno e dell’appetito, un aumento della suscettibilità a malattie fisiche dovute allo stress e a uno stile di vita malsano, oltre a un indebolimento del sistema immunitario, cardiovascolare ed endocrino.
Le ricerche evidenziano che la mancanza di relazioni sociali può influire sul rischio di morte prematura quanto fumare quindici sigarette e bere sei bicchieri di vino al giorno. Uno degli antidoti più efficaci per contrastare la disperazione che la solitudine può portare con sé è offrire ai bambini una relazione che nutre e riempie al punto da poterla interiorizzare quando non c’è, da evocare in assenza, come dimensione consolatoria anche quando l’“oggetto reale” non è presente in carne e ossa. Una relazione appagante che, dopo essere stata incorporata, diventi una funzione del proprio Sé, consentendo di autoregolarsi, di rassicurarsi nel momento del bisogno. Una relazione che vive dentro e viene integrata nel proprio apparato psichico, impedendo di sprofondare nel baratro, nel vuoto dell’assenza di senso, di valore del Sé, dell’altro e della vita. Non una dimensione relazionale che ingombra, che prende il posto del vero Sé, che si sostituisce, ma che è capace di presentificarsi in modo sufficientemente buono, come ci ha insegnato Donald Winnicott, attraverso soddisfazioni e frustrazioni bilanciate, preservando la vitalità e l’autenticità della soggettività di ciascuno. Solo così il piccolo figlio di noi esseri umani può essere sereno anche senza la costante presenza degli altri e può stare con i propri pensieri senza sentirsi smarrito e, per questo, angosciato.
Spesso mi chiedono quale sia il modo migliore di comportarsi come genitori, cosa fare come insegnanti o educatori, quali sono le cose che gli adulti possono fare o non fare per essere d’aiuto ai ragazzi e alle ragazze. Magari mi rivolgono queste domande alla fine di una conferenza, di una formazione in cui mi sembrava di essermi anche piuttosto accalorato nel dire che facciamo troppo, che pensiamo troppo – e spesso anche male – cercando di anticipare ciò di cui hanno bisogno, senza nemmeno chiedere loro cosa desiderano o come si sentono. Ciò che risulta più difficile non è tanto ascoltare, quanto permettere che le parole del dolore penetrino davvero dentro di noi e abbiano il tempo di radicarsi nella mente e nel cuore, affinché possano entrare in dialogo con le nostre emozioni e i nostri sentimenti più profondi. Quanto è faticoso lasciare attecchire le emozioni negative dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze dentro di noi. Come è difficile trasformarle nei semi in grado di far germogliare nella nostra pancia la pianta dello stare, che, come la ginestra di leopardiana memoria, è splendida e lucente, e ha radici profonde e intrecciate, in grado di resistere e ancorarsi in profondità al terreno che le circonda. Possiamo stare nella relazione, anche se non riusciamo a metterci comodi, anche se non siamo adagiati sui morbidi cuscini degli affetti più caldi, avvolgenti e rassicuranti. Allora provo a scriverlo, con la veemenza dei caratteri cubitali non consentiti dal galateo di un saggio ma con lo stesso accorato e viscerale pathos che potrebbe transitare da una gigantografia, da un discorso urlato in piazza.
La risposta è: possiamo stare. Stiamo. Stiamo fermi, stiamo in ascolto, attenti, concentrati, scomodi, con la sensazione di avere appena ricevuto un pugno nello stomaco, ma stiamo. Stiamo a sentire – e non solo le parole che i ragazzi hanno da dire e che rivolgono a noi adulti. Parole sgrammaticate, impensabili, a volte prive di senso, almeno in apparenza, prive di speranza e vuote. Vuote rispetto al pieno di vita di cui vorremmo che loro fossero testimoni, che riteniamo di aver erogato dal nostro distributore di amore, attenzioni e risorse. Stiamo a sentire quanto male hanno dentro e quanto fa male a noi. La loro rabbia, la loro fatica, l’assenza di prospettive, di amici, di una qualsiasi visione arriva e ci trafigge come una lama in mezzo al petto, come un pugno nello stomaco, come il sangue che arriva al cervello, come qualcosa che ci scava dentro. Ci toglie il fiato. Ma anche questa è vita. Fa male, come quando le donne che diventano madri si contorcono nelle doglie, nel parto, ma è vita che passa anche da lì, dal sentirsi più vicino alla morte mentre si sta generando la vita. Attraversare intensamente il dolore è la prima esperienza che incontriamo per stare nel mondo, per vivere. Quello dei figli è un dolore che prende il corpo, lo sovrasta, ma è come un’onda gigante e travolgente. Possiamo resistere, lasciarci travolgere, ma restando piantati profondamente dentro di noi, saldi e sicuri che, con la stessa intensità, esso evolverà, si trasformerà, non a modo nostro ma a modo loro. Non serve andarsene altrove, con la mente o fisicamente, ma serve restare lì accanto, vicino, sintonizzati sulle loro frequenze, senza cedere alla tentazione di cambiare canale, come di fronte a un film dell’orrore o a un programma che non ci piace. Se nella vita abbiamo cercato di essere sempre un esempio di impegno, forza e dedizione, è naturale sperare che queste qualità trovino riscontro nelle esperienze dei nostri figli.
Eppure spesso non succede, anzi, quasi mai. E allora ci sembra di aver sbagliato tutto, di aver fallito, come se fosse tutta colpa nostra. La colpa, però, rischia di soffocare il nostro vero senso di responsabilità, che non riguarda tanto le ragioni che portano al dolore, quanto la nostra capacità di farcene carico e di essere adulti in grado di sostenere i ragazzi e le ragazze e i loro momenti di difficoltà, più o meno intensi, condividendone con loro il peso. Cedere alla tentazione di attribuirci esclusivamente tanto le colpe quanto le responsabilità unilaterali rischia ancora una volta di allontanarci da loro, facendoci rimanere più sintonizzati con noi stessi e con il peso della nostra fatica nel gestire il dolore. Rischiamo di metterci al centro, là dove sotto al riflettore è importante ricollocare i figli e gli studenti, le figlie e le studentesse.
Oggi siamo portati a pensare che se la caveranno da soli, che nel momento in cui gli abbiamo apparecchiato e organizzato il meglio – e dal punto di vista razionale lo abbiamo fatto veramente – non ci sarà bisogno di noi. Questo spesso è vero, ma non sempre e di certo non quando le loro fragilità emergono e ci interrogano su dove collocarci. Abbiamo paura di renderli fragili e dipendenti con la nostra vicinanza, ci convinciamo che non ne hanno bisogno, quando invece magari il bisogno è lì piantato davanti a noi, anche se nemmeno i ragazzi e le ragazze sanno dargli un nome (…).
Non ho mai capito bene cosa si intenda con l’espressione “felicità”, forse perché mi sembra che non ci sia un granché da essere felici in questa vita. Sento e penso però che se c’è qualcosa che si avvicina alla felicità è la relazione. Felice come un bambino? Mah! Comunque sia, gli adulti hanno bisogno di credere alle illusioni, a volte più degli stessi bambini e per questo custodiscono dentro di loro la magia dell’incanto, del farsi incantare. Gli adulti sono abitati da un conflitto tremendo, il bisogno di proteggersi dalle illusioni pericolose e bugiarde e la paura della verità che porta a rifugiarsi nella traiettoria della maschera, della finzione, nel bisogno di cullarsi dentro al sogno, senza ammetterlo. Per questo ricorrono a una razionalità distaccata dalle emozioni e dagli affetti più autentici, dalla purezza dell’autenticità scomoda e spudorata. Come adulto ripartirei da qui. Dal bambino interno che c’è ancora dentro ognuno di noi. Da un bambino a volte spaventato, perché teme di uscire allo scoperto, teme di essere ingannato e raggirato se viene lasciato libero di esprimersi. Allora preferisce fingere che vada tutto bene, che ciò che lo circonda è splendido e sfavillante anche se non esiste, diventando però un adulto che si inganna da solo per paura di contattare la verità e l’altro. Stare accanto alle verità affettive scomode e dolorose dei figli e delle figlie comporta la possibilità di non avere troppa paura di sprofondare nella disillusione. I figli e le figlie riavviano a un certo punto della propria vita adulta l’illusione della tenerezza, della speranza di rigenerarsi attraverso di loro, di essere consolati e coccolati rispetto alle fatiche di una vita adulta sempre più concentrata nel non perdere il filo della propria crescita spasmodica, irrefrenabile, da essersi indurita.
Se anche i figli e le figlie ci ricordano che la vita contempla inesorabilmente anche dolore e sofferenza, può allora diventare insostenibile. Il dolore, il loro, ci rompe l’incanto, l’incantesimo che la loro venuta al mondo aveva creato dentro di noi. La loro funzione riparatoria e protettiva nei nostri confronti viene meno. I nostri figli ci dicono che il re è nudo ed ecco che sprofondiamo nello sconforto. Per questo corriamo subito a dirgli che non è vero, che va tutto bene, che loro sono bravi, coraggiosi, che non stanno davvero male. Come se gli dicessimo ti prego, anche tu, non disilludermi, non farmi soffrire. Ci ha già pensato la vita, non farlo anche tu. Tu che potevi e dovevi riconnettermi con la purezza, con la morbidezza, con la rassicurante e infantile visione del mondo a tinte pastello. Non puoi oscurare il sogno, anche tu, altrimenti mi prendo un cane, così ci pensa lui a scodinzolare e inondarmi d’amore, senza chiedere così tanto in cambio. Invece dovremmo davvero ascoltarli mentre ci dicono che il re è nudo, con tutto lo sconcerto che questo comporta. Farci accompagnare nella possibilità di riconnetterci al nostro bambino interno che è stato capace di pensare ai mostri, ai lupi cattivi e agli impostori, risvegliandosi poi al mattino carico di vita. Stare nel dolore dei figli e delle figlie fa bene non solo a loro ma anche a noi, perché ci fa prendere cura del nostro bambino interno, ci fa tornare a dialogare con quella creatura meravigliosa che siamo stati, così capace di costruire l’incanto e disilludersi in continuazione, senza paura di dire la verità di ciò che vede. Solo così si sente profondamente e autenticamente. Proteggerli e proteggersi dal dolore è molto diverso dal chiedergli e dal chiedersi di non provarlo. Si tratta di stare, non di fare… Chiamami adulto.