venerdì 28 marzo 2025
Il racconto di un padre che credeva di “controllare tutto” e scopre la fragilità di un adolescente alle prese con l'anoressia. Nel nuovo romanzo di Matteo Bussola l'autocritica di un genitore
«Caro figlio, ti amo perché sei diverso da come ti aspettavo»

Icp online

COMMENTA E CONDIVIDI

«Deludici tutte le volte che vorrai, fallo ogni volta che ti sembrerà giusto o necessario. Continua a insegnarci che amare un figlio, o una figlia, vuol dire amare un tradimento, voler loro bene soprattutto quando sono molto diversi da ciò che si era sperato. Forse si diventa padri, si diventa madri proprio per imparare quel tipo di amore lì, unico e irragionevole, che non si può sperimentare in nessun altro modo, in nessun altro tipo di relazione». È uno dei passaggi più toccanti del romanzo La neve in fondo al mare (Einaudi) di Matteo Bussola, che parla della fragilità e del dolore degli adolescenti contemporaneamente alla difficoltà – e allo «spavento» – di essere genitori, ma anche della possibilità di salvarsi insieme.

«Mi hanno trasmesso l’idea che essere genitore significhi fare quel che si deve, invece che fare quel che serve», aggiunge l’autore. Che in questo volume racconta l’incontro e scontro di un padre e un figlio, dentro una stanza in un reparto di neuropsichiatria infantile. Nello stesso ospedale ci sono altri genitori e altri figli, ragazzi che rifiutano il cibo o che si fanno del male, che vivono la fatica di crescere in famiglie incapaci di riconoscere la loro sofferenza profonda. Madri e padri appaiono smarriti, spaesati, non sentendosi più pronti per il ruolo educativo. Tommy ha 16 anni e vuole dimagrire fino a scomparire (viene ricoverato perché ha assunto un’overdose di pillole dimagranti), Eva mangia fino a stare male, Nico non sa controllare la sua rabbia, Giacomo vive di followers e likes, Maria vuole solo sentire dolore: tutti vivono quella che chiamano «l’età più bella», provando però un dolore che i loro genitori non capiscono e non sanno arginare.

«Questo romanzo è le voci di Tano, Tommy, Giack, Amelia, Eva, Franco, Marika, Nicholas, quattro genitori e quattro figli che provano a guardarsi, a vedersi, a parlarsi, ad accogliersi, proprio nel momento più difficile», spiega Bussola sui suoi profili social. In uno scambio di battute contenuto nel libro, viene chiarito il senso del titolo: «Scoprire la profondità della tristezza di un figlio, a neanche sedici anni, è come trovare qualcosa in un posto in cui non te lo saresti mai aspettato. In cui proprio non dovrebbe esserci. (…) Tipo, non so. Come trovare la neve in fondo al mare». Infatti il romanzo, chiarisce l’autore, «parla della fragilità di una generazione di adolescenti, delle loro cadute e ferite, spesso autoinflitte, e dello speculare spavento di una generazione di genitori. Ma parla anche di quanto questi ragazzi siano luminosi, se si ha il coraggio di guardarli davvero, perché l’ombra è sempre più scura dove la luce è più intensa. Ci sono dentro il senso di inadeguatezza dei quindici anni, quando ti sembra che tutto il mondo cospiri per farti somigliare a qualcosa, per allontanarti da te, e il senso di colpa di quei padri, e quelle madri, che davanti al dolore di un figlio si scoprono impotenti».

Quindi il volume «parla di cosa significa diventare grandi, del coraggio di deludere. Perché i nostri figli e figlie non vengono al mondo per piacerci, per soddisfare desideri, per subire le lancinanti richieste di perfezione della società. Ma arrivano per insegnarci la bellezza di amare una distanza: ti amo proprio perché sei diverso da come ti aspettavo. Proprio perché sei tu. Cadute comprese», puntualizza Bussola, aggiungendo: «È una storia a cui ho fatto a lungo resistenza, nonostante la disperata voglia di raccontarla. Poi, un giorno, al termine di un incontro, una diciassettenne con le braccia piene di tagli mi ha abbracciato. Mi ha detto di quanto l’avesse fatta stare bene sentirsi vista, anche se solo attraverso le parole di uno sconosciuto. Mentre la stringevo, sentivo il suo corpo tremare. Due passi indietro, sua madre mi guardava con degli occhi così colmi di spavento e stanchezza e amore, carichi di un assordante dolore muto che non dimenticherò mai. È lì che ho deciso, e che mi sono ricordato che il compito di chi scrive è quello di dare voce a chi non ce l’ha. Non lasciarlo solo».

Ingegnere, 49 anni, padre di altre due bambine, il protagonista Tano (Caetano) Bernardi, papà di Tommy, si tormenta per cercare i suoi errori paterni che potrebbero aver dato l’innesco all’anoressia del figlio, «ossessionato dall’individuare l’istante in cui è iniziato tutto. Quando si è aperta la crepa. Le ragioni per cui si è innescato il processo. Come ho fatto a non accorgermene prima? Io e sua madre non ci diamo pace su questo». Mentre lo veglia, nella stanza d’ospedale, si rivolge a lui con un flusso di ricordi: «Da bambino credevi a tutto, agli alberi all’asfalto ai sassi ai bordi delle strade, al cielo alla pioggia ai gatti sdraiati al sole, ai due panini imbottiti a merenda e ai cartoni guardati insieme la sera, alle tue buone intuizioni, alle mie buone intenzioni, all’immaginazione che conduce a un risultato, credevi a tua madre, credevi a me. Credevi in te. Forse diventare grandi, in fondo, non vuol dire che questo: smettere di credere».

E da parte del genitore arriva un’autocritica: «Ecco perché Tommy e io siamo qui. Perché sono sempre stato uno che ha provato ad avere il controllo di tutto e ha scoperto, al contrario, di non averlo su niente. Perché ho cercato di utilizzare le regole che mi hanno insegnato, senza tener conto che le stavo applicando a una vita che pensavo di capire solo perché ho contribuito a farla arrivare nel mondo». Ma il figlio dà una chiave di lettura al suo disagio, cristallina e spiazzante: «Il dramma è solo che sono cresciuto, pa’. Che la menzogna è scoperta: tu non sei speciale, sei solo mio padre. Io non sono speciale, sono solo tuo figlio».

In questa prospettiva, si può proseguire la lettura della citazione iniziale, che dà speranza e indica la pista da seguire per far crescere il rapporto fra genitori e figli: «Forse il vostro compito è quello di riuscire a farci scorgere la bellezza anche nel progetto che non riesce, nella promessa non mantenuta. Nella provvisorietà del bene. Nel crollo che ci svela cos’era a tenerci in piedi. E invece il dramma è che vi sproniamo a una competizione inesausta, a tentare di essere fra i migliori, a cercare il successo, a sacrificare quasi tutto sull’altare di una presunta perfezione, perfino a calpestare gli altri se impediscono il raggiungimento di un obiettivo. Il mondo intero cospira per soffocarvi con aspettative lancinanti. Noi compresi. Perché anche noi genitori le abbiamo subite e le subiamo, quelle aspettative, e abbiamo assorbito quei modelli nostro malgrado. Ecco perché ci può accadere, nonostante tutte le attenzioni, di farvi sentire sbagliati, insufficienti, non all’altezza, incoraggiandovi addirittura a perseguire propositi che non desiderate davvero». Nel lungo messaggio rivolto a Tommy, Tano individua da dove loro due possono ripartire, «dal diritto di essere amati semplicemente per ciò che siamo. Non tanto come genitore e figlio, ma prima di tutto come due esseri umani che hanno voglia di dirsi chi sono».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: