
Anna e Christopher sposi a Rossano Veneto - Papa Giovanni XXIII
L’istantanea che meglio descrive lo spirito felliniano di CasaMondo è la gita a Venezia: «Una ventina di africani e asiatici in fila lungo le calli, che spingono tre bambini biondissimi in carrozzina. Ci guardavano tutti. Noi per tutto il giorno non abbiamo toccato un passeggino». Anna Marchetti e Christopher Pellizzari, giovani sposi veneti trapiantati a Rimini, sono i genitori dei tre biondini «con tanti baby sitter», Santiago di 4 anni, Cecilia di 3 ed Enea di 5 mesi, ma sono anche i responsabili di CasaMondo, la casa di accoglienza per giovani migranti maggiorenni dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi (di cui ricorre il centenario della nascita ed è in corso la causa di beatificazione). «All’inizio eravamo un po’ preoccupati, Santiago aveva sei mesi e venire in questa casa con tutte queste nazionalità... Insomma, siamo in 24, ci sembrava una sfida», si giustifica Anna. «Invece ci siamo subito rilassati, questi ragazzi vogliono un gran bene ai nostri figli, se li rubano, fanno parte della famiglia». In realtà a CasaMondo siamo venuti per conoscere loro, i ragazzi di nove nazionalità che attualmente vivono qui (gli ultimi sono arrivati a settembre, i primi tre anni fa, da Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, Egitto, Sierra Leone, Nigeria, Costa D’Avorio, Burkina Faso e Guinea), ma poi ti accorgi che la vera notizia sono Anna e Christopher, «non riusciremmo più a vivere una vita solo noi cinque», affermano loro. Non hanno fatto in tempo a conoscere don Oreste, ma a folgorarli è stata la sua rivoluzione, «l’idea vincente della “condivisione diretta”, mettere la nostra vita insieme alla loro, non con una gerarchia “io aiuto te” ma alla pari: don Oreste non si dava pace se non riportava la giustizia dove c’è disuguaglianza e già nascere in Italia o in Afghanistan è una forma di ingiustizia, allora io come rimedio? Mettendomi al fianco dell’altro».

Chris, Anna, i tre bimbi, tra i ragazzi di CasaMondo e alcuni volontari - Papa Giovanni XXIII
È quasi sera e gli odori della cucina riempiono già il cortile. Oggi ai fornelli sono di turno Albert, 22 anni, della Sierra Leone, e Al Miràn, 30, dal Bangladesh, Africa con Asia, un cozzare di spezie ed abitudini che a CasaMondo trova quotidianamente una sintesi non solo culinaria. «Riso con spezzatino», annunciano i cuochi, i problemi sorgono con la pasta, tanto cara agli italiani ma trasversalmente odiata da tutti loro. Cristiani con musulmani, lingue diverse, ognuno con il suo carico di nostalgie, chi ha lasciato a casa moglie e bambini, chi genitori e fratelli, tutti con la stessa speranza di una vita vivibile. «Mia moglie Sonia e i miei due bimbi di 4 e 2 anni sono in Bangladesh – racconta Al Miràn, sguardo buono e perenne sorriso –, sono arrivato con la barca dalla Libia due anni fa, è stato pauroso, per tre giorni e tre notti siamo rimasti fermi in mezzo al nulla senza benzina né cibo, eravamo in ventiquattro. Poi l’arrivo in Sicilia, da lì ci hanno smistati e io sono stato mandato a CasaMondo, sono fortunato, a volte sono triste ma qui il mio cuore si consola, Chris e Anna e i bambini sono la mia famiglia italiana». L’altra la chiama tutti i giorni, è per mandare i soldi a loro che ha trovato il coraggio di partire. «Sua figlia compie gli anni lo stesso giorno di Santiago, così ci colleghiamo in video e i nostri bambini spengono le candeline insieme», interviene Anna.
Più tragico è stato il viaggio di Albert, «eravamo in due barche – racconta a occhi bassi, tra le dita stringe la piccola croce appesa al collo –, l’altra l’abbiamo vista affondare, c’era a bordo il mio amico». Prima che questi ragazzi parlino passano settimane, anche mesi, «poi ti mostrano una foto, iniziano ad aprirsi, e allora emergono dolori, guerre, soprusi, e infine speranze – spiega Chris –, alcuni sognano di tornare a casa ma più spesso il desiderio è di portare qui la famiglia: vedono come crescono i nostri figli, che vanno a scuola, vivono nella pace, hanno da mangiare, se si ammalano sono curati, e giustamente vogliono tutto questo anche per i loro».

Al Mirà e Albert con il piccolo Enea - Papa Giovanni XXIII
A CasaMondo si riga dritto, i ritmi li stabilisce Anna, che sulle lavagne magnetiche segna nomi, orari, turni di lavoro: questa settimana Adama (magnete giallo) si occupa del frigo e del carrello spezie, Sakib (magnete bianco) delle stanze, Alì (arancione) del salotto, Rahib dei bagni, Zabiullah dei corridoi, Houssain dei divani... Non c’è severità ma rispetto sì, e tutto è colorato. Un poster alla parete ci prova a spiegare cos’è CasaMondo, “è tanto casa quanto mondo, l’opportunità di fermarsi, ricaricare le batterie e poi ripartire”, una terra di mezzo per chi “aspettando quei documenti che sembrano non arrivare mai, è sorpreso nel ritrovarla qui la sensazione di casa. Che poi da noi casa vuol dire famiglia, con tutto quello che ne consegue”, cioè cose belle e cose brutte, soddisfazioni e difficoltà, affetti e scontri, «non siamo perfetti ma poi tutto si risolve, proprio come in ogni normale famiglia». La mattina i ragazzi vanno a scuola (qualcuno ha già preso il diploma delle medie) o al lavoro nei campi, tutti con contratto regolare, «io ho lavorato in un ristorante, ora studio da idraulico e per la patente di guida», precisa Albert mentre Cecilia e Santiago gli montano in braccio. E qualche volta ci sta pure una gita come quella a Venezia o sulla neve (che molti non avevano mai visto), perché, afferma Christopher, «la bellezza va condivisa».
CasaMondo è una follia d’amore nata dall’incontro tra due ragazzi che il loro quieto Veneto – lavoro, stipendio, quattro amici al bar – se lo sentivano stretto. «Ci siamo conosciuti nel 2015 in birreria, niente di romantico – ride Anna –. Io studiavo ostetricia all’università di Padova ma nei fine settimana lavoravo come cameriera, lui era appena tornato dall’America Latina, zaino in spalla e lunghi capelli rasta, un turista fai da te. Mi ha subito colpito quando mi ha raccontato che a La Paz, in Bolivia, gli anziani chiedevano la carità in strada e lui si era sentito ingiustamente privilegiato. Perciò sarebbe tornato in Colombia ma questa volta con un progetto, una finalità...». «Io invece rimasi colpito dalla sua famiglia – ribatte Chris –, con quattro figli i suoi genitori ne avevano preso in affido un quinto, avevano l’accoglienza nel Dna...». Il primo approccio con la Papa Giovanni XXIII lo ha avuto Christopher, spirito libero sempre in cerca di un senso: nel 2008 a Bassano del Grappa aveva conosciuto una delle case famiglia, da lì l’esperienza estiva a Rimini nei “campi di condivisione” con i ragazzi disabili, poi nel 2011 il servizio civile in Zambia, dove don Benzi aveva fondato la prima casa famiglia all’estero. «Io invece la Comunità l’ho conosciuta attraverso Chris, al secondo appuntamento mi ha portata a fare un banchetto di raccolta fondi per l’Operazione Colomba, il progetto che propone la nonviolenza nei luoghi di guerra attraverso la presenza stabile di volontari. Mentre Chris lasciava il lavoro di idraulico e partiva per la Colombia, su suo input («mica starai tutte le ferie con le mani in mano!») provai anch’io i “campi di condivisione” a Rimini e lì la Comunità mi ha colpita al cuore. Rientrata a casa sentivo un senso di vuoto e la nostalgia di un’esperienza così ricca, di risate, di amore... Ero mille volte grata, ero partita convinta di aiutare gli altri e mi sono sentita aiutata».
Anche Chris era confuso, tornare da un’Operazione Colomba nei teatri di guerra e riprendere la vita di paese era impossibile, «così mi sono iscritto a un corso di Operatore socio sanitario a Rimini, chiedendo un tetto alla Papa Giovanni XXIII... e mi sono beccato la “Capanna di Betlemme”», la casa di accoglienza per gli ultimissimi, quei “barboni” che la notte popolano ruderi e panchine, e che i volontari dell’associazione vanno a cercare (ci sono tanti poveri che non ci cercheranno mai! Quelli, li dobbiamo cercare noi, raccomandava don Benzi). Di giorno, quindi, il corso di Oss, la notte in camerata con una dozzina di senzatetto, «ma prima di dormire la sera andavamo in stazione e ne portavamo a casa un’altra dozzina per la cena, c’erano letti dappertutto, tre notti al coperto a turno, poi si valutava chi aveva più bisogno... Sarei dovuto restare otto mesi per il corso, sono rimasto tre anni: la "Capanna" mi aveva innamorato. Prima ero inquieto, non capivo quale fosse la mia missione, ora la missione aveva trovato me».
Pure Anna nei fine settimana lasciava l’ateneo di Padova per la “Capanna” di Rimini, nella parte delle donne: «È tosta, ci vuole molto spirito di adattamento – ammette lei – ma sicuramente questa esperienza ha fatto balzare ai nostri occhi la qualità dell’altro, quel desiderio di offrire cura che, andando a cena fuori o in discoteca, non sarebbe emerso». Nel settembre del 2019 si sono sposati e nel paesino di Rossano Veneto se ne parla ancora. Quattrocento invitati li raggiungi presto se sei della Papa Giovanni («e con la Capanna che fai? non li inviti i “barboni”?»), la sindaca ha offerto la struttura e una torta per 400, gli Alpini hanno cucinato, i volontari di Operazione Colomba hanno servito ai tavoli assieme ai fratelli di Anna, suo padre allevatore ha offerto la carne e ha portato dai campi le balle di paglia per far sedere gli ospiti, il padre di Chris le verdure dell’orto. «Il sacerdote ha celebrato la santa Messa con la casula cucita in Africa e Chris era in elegante giacca nera sopra ai pantaloni coloratissimi del Ghana, aveva ancora i capelli rasta», sorride Anna sfogliando le foto in cui appare radiosa nel suo vestito bianco, unica stranezza la collana a forma dei cinque continenti, profezia di quella CasaMondo che ancora non conosceva.
Il viaggio di nozze, manco a dirlo, sarebbe stato un intero anno in Bolivia come servizio civile con i Caschi Bianchi in missione di pace, ma il Covid ha cambiato le cose. «Nella terribile emergenza generale, noi stavamo in lockdown belli comodi, non ci mancava niente... Così, quando l’associazione ha aperto a Cattolica il primo Hotel Covid d’Italia, ci siamo offerti di gestirlo. È in Hotel Covid che Santiago è nato, accoglievo i contagiati col pancione!», sorride ancora Anna. Ed è sempre in Hotel Covid che lei e Chris hanno iniziato il periodo vocazionale per verificare (“fare vera”) la chiamata di Dio alla piena appartenenza alla Papa Giovanni XXIII come un’unica famiglia spirituale. «Il tutto è accaduto grazie alla presenza imprevista di Lorella, una consacrata in Bolivia, proprio quella da cui saremmo dovuti andare noi in quel viaggio di nozze mancato. Era rimasta bloccata in Lombardia per colpa della pandemia, l’hanno mandata all’Hotel Covid e noi abbiamo comunque vissuto il nostro anno insieme! Tu guarda se Dio deve mettere tutto così in ordine, anche quando ti scombina i piani».

Due dei ragazzi ospitati a CasaMondo giovcano con Santiago e Cecilia - Papa Giovanni XXIII
Passato anche il Covid, la Comunità ha proposto loro di restare a CasaMondo e, dopo qualche incertezza («la paura del diverso, un neonato da crescere lì»), l’incontro con i ragazzi ha fugato ogni dubbio, «loro addormentano Enea e Cecilia molto meglio di me! In un contesto così aperto i bambini crescono in una ricchezza enorme, tra cibi diversi, pelli diverse, lingue diverse, per loro è normale avere tanti zii. E anche per i ragazzi è importante, qui ti senti “voluto bene” e questo quando sei solo in un Paese lontano fa la differenza». Non deve essere scontata per un genitore una vita del genere per la propria figlia – notiamo – e infatti il padre di Anna era perplesso, «hai studiato per una laurea e ora a che ti serve?», ma per l’ultimo compleanno le ha scritto una lettera in cui si dice “grato al Signore per avere una figlia così felice”. E i genitori di Christopher? «Dopo che sono stato nelle zone di guerra, ora vivo a Rimini con una ventina di africani ed asiatici che sono i miei fratelli, quindi sono tranquilli», stavolta a ridere è lui.
Le ore passano e tutti i ragazzi sono rientrati a CasaMondo, chi dal lavoro, chi da scuola. Anche i volontari sono in arrivo: c’è Maria, insegnante di liceo e madre di una bimba, che la mattina tiene i corsi di italiano, ma questa sera per la prima volta accompagnerà Christopher nel giro notturno alla stazione con coperte e tè caldo. C’è anche la farmacista che tutti i venerdì si presenta a dare una mano: un giorno, incuriosita dalla strana combriccola che era entrata in farmacia, ha chiesto chi fossero «ma è difficile raccontare – allarga le braccia Christopher –, le abbiamo detto “vieni a vedere” ed è rimasta». Come le due ragazze del servizio civile della Comunità e i tanti giovani che tornano dalle varie missioni di Operazione Colomba in Libano, Ucraina, Palestina, e qui ritrovano il mondo.
Siamo a fine giornata e Christopher si prepara per la stazione. Sul pullmino carica le vivande, ma la merce più richiesta qui è qualcuno che si sieda lì per terra con te che non sei nessuno e non hai niente, un fantasma che la gente scavalca. «Lo faceva sempre don Oreste», dice, «e ogni tanto vado anch’io, ne ho bisogno. Io Gesù l’ho incontrato in strada».