sabato 16 febbraio 2019
Kady e Momodou, che si sono ricostruiti una vita e un futuro grazie all’impegno della Chiesa. Alice e Federico, che hanno aperto la loro casa ai minori soli.
Accoglienza e amicizia (foto d'archivio Ansa)

Accoglienza e amicizia (foto d'archivio Ansa)

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Kady venerdi ha abbracciato il Papa. È ancora emozionata mentre racconta come sia stata accolta a casa dell’arcivescovo di Foggia Vincenzo Pelvi, grazie all’intervento della direttrice della Caritas diocesana Giuseppina Di Girolamo. «Sono arrivata dal Senegal a Roma sei anni fa – spiega –, con un volo di linea. Mia mamma era morta e volevo studiare. Ho dovuto rifare le medie e mi sto diplomando in ragioneria alle serali per proseguire all’università. A casa del vescovo mi sentivo in famiglia, ci sono stata alcuni mesi, mi diceva che la casa del Signore è di tutti. È come un padre, mi aiuta ancora oggi che ho raggiunto maggiore autonomia. Lavoro alla mattina in un bed and breakfast e qualche pomeriggio alla Caritas».

A Sacrofano si sono date appuntamento le storie di un’Italia nascosta e controcorrente per il meeting "Comunità accoglienti, liberi dalla paura" organizzato da Caritas italiana, Fondazione Migrantes e Centro Astalli con 500 partecipanti da 90 diocesi, tra cui profughi e rifugiati di 38 nazioni. Dopo l’incontro con il Santo Padre venerdì pomeriggio e l’incoraggiamento dell’arcivescovo di Fabriano Matelica Stefano Russo, segretario generale della Cei, ieri sono intervenuti diversi presuli come il vescovo di Civita Castellana Romano Rossi, il vicario di Roma Angelo de Donatis, i vescovi ausiliari della diocesi capitolina Guerino Di Tora, presidente della Migrantes, e Paolo Lojudice e l’emerito di Trento Luigi Bressan.

«Questo meeting – commenta il responsabile del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti – ha una grande importanza in questo momento storico dove il tema delle migrazioni ha assunto caratteri globali, ma ha anche una certa importanza per l’Europa e il nostro Paese. Sempre di più si scatenano paure legate alla non conoscenza del fenomeno: la paura della gente comune, la paura di tutti noi e non dobbiamo dimenticare la paura delle persone che arrivano nel nostro territorio, che sperimentano un mondo nuovo e una cultura nuova».

Le sue paure Momodou, 23 anni, senegalese, le aveva vinte quando è stato accolto in una comunità religiosa che ha aderito al progetto del centro Astalli. Oggi ritornano con l’incertezza del decreto sicurezza. «Ho la protezione umanitaria, anche se adesso devo provare a cambiare permesso di soggiorno, perché so che non esiste più in Italia.Per fortuna lavoro, spero di non aver problemi».

È scappato a 17 anni. «Nel Casamance, la regione del Senegal dove vivevo, c’erano la guerra e i ribelli. Non potevo restare. Così sono fuggito.Sono stato in Mali, Burkina Faso, Niger. In ogni Paese mi sono fermato per lavorare e mettere da parte i soldi per proseguire il mio viaggio». In Libia è stato venduto ai trafficanti.

«Ci hanno chiuso in una piccola casa con tante altre persone. Era un carcere illegale, segreto. Alla fine ho pagato 100 dollari e mi hanno fatto andare. Sono arrivato a Tripoli, dove ho lavorato 1 mese e mezzo per una grande multinazionale che produce una famosa bevanda che qui in Italia si beve tantissimo.Trasportavo le cassette di lattine. Lavoravo 12 ore, mi davano circa 20 dollari al giorno. Ho pagato 500 dollari il posto sul gommone. Eravamo 117 persone. Troppi perché la barca era piccola. Dopo 4 giorni in mare con le onde alte, ero sicuro che saremmo morti. Ma in lontananza abbiamo visto due navi. Tutti si volevano avvicinare, ma era troppo pericoloso, le onde provocate dalle navi ci avrebbero scaraventato in acqua. Siamo rimasti fermi per tanto tempo. Alla fine una nave inglese ha buttato in acqua le scialuppe e ci hanno fatto salire. Ci hanno fatto sbarcare, a Trapani dove ci hanno messo per 10 giorni in un campo da basket. Non capivamo bene cosa sarebbe successo, perché nessuno ci diceva nulla. Da Trapani mi hanno trasferito a Bari al Cara. Dopo due anni ho ottenuto la protezione umanitaria e così ho avuto diritto a un posto in un centro dello Sprar. Lì finalmente ho cominciato a progettare il mio futuro in Italia». Momodou ha cominciato a studiare. Ha preso il diploma di terza media. Ha ottenuto la qualifica di mediatore culturale. Ora lavora tutte le mattine e il pomeriggio frequenta l’istituto superiore per prendere il diploma di meccanico: «Voglio iscrivermi all’università».

Nell’ottobre 2016 Stefano Canestrini, responsabile del Centro Astalli di Trento, ha lanciato un appello alle comunità religiose delle Provincia per aprire le porte ai rifugiati. «Siamo partiti con gesuiti, comboniani, cappuccini e Dehoniani. In tutto sono state accolte 34 persone inviateci dalla Questura arrivate nei porti italiani e trasferite in Trentino. Lo Stato finora copriva 30 euro al giorno, poi le comunità mettevano a disposizione le strutture e il valore aggiunto dei volontari. Sono stati inseriti in corsi di formazione, a livello lavorativo e nelle comunità. Almeno il 70% è diventato autonomo. Ora che la nuova giunta provinciale ha accolto la circolare del Viminale che ha tagliato i costi e i servizi di assitenza, con la diocesi e le comunità religiose si sta rivedendo la progettualità per fare rete e sinergie per non far naufragare il progetto».

L’accoglienza ha cambiato anche la vita di Alice Arpaia e Federico Savia, sposati da 15 anni e senza figli. Scout e Azione Cattolica nel percorso, nel settembre 2015 hanno ascoltato l’appello del Papa e, attraverso Migrantes diocesana, si sono rivolti a Casa affido del comune di Torino accogliendo in casa Igli, arrivato minorenne e solo dall’Albania. Come tanti suoi coetanei che ancora vedono il Belpaese come una opportunità. Igli oggi ha 20 anni, vive con loro e sta finendo un corso di formazione professionale di cucina, cerca lavoro per andare a vivere da solo. «Non cercavamo un figlio – spiegano – è non è stato facile avere in casa un adolescente. Ma una volta chiarite le regole abbiamo imparato a rispettarci e a volerci bene». La coppia è andata in Albania a conoscere la famiglia del ragazzo. Federico e Alice ora ci riprovano. Si trasferiranno a San Salvario, cuore multietnico torinese, per aprire una casa famiglia diocesana per sei minori stranieri soli.

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