giovedì 20 febbraio 2025
Dopo la legge della Toscana che stabilisce l’iter per la morte come prestazione del Servizio sanitario il presidente Amci denuncia i molti vuoti che si possono aprire ora per l’assistenza a chi soffre
Quante domande dei malati "silenziate" dal suicidio assistito

Foto Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Un tempo la nascita di una vita rappresentava motivo di gioia. Oggi, al contrario, ne viene celebrata l’interruzione come “vittoria”, tanto da essere riportata con toni trionfalistici sulla maggior parte dei mass media.

Fa molto discutere, infatti, l’autorizzazione al suicidio assistito da parte del Consiglio regionale della Toscana che ha recentemente approvato la norma sulla liceità di poter richiedere il suicidio medicalmente assistito: vittoria o sconfitta? Vittoria, secondo la logica di chi ha dichiarato in passato, nel corso di un programma televisivo la liceità di arrivare ad «ammazzare chi è d’accordo ad essere ammazzato». Sconfitta, secondo quanto affermato dal presidente della Conferenza episcopale toscana cardinale Paolo Lojudice («sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo ma una sconfitta per tutti»), posizione poi condivisa e rilanciata dalla Presidenza della Conferenza episcopale italiana, che in una nota sul fine vita ha auspicato «interventi che tutelino nel miglior modo possibile la vita, favoriscano l’accompagnamento e la cura nella malattia, sostengano le famiglie nelle situazioni di sofferenza».

A tale proposito san Giovanni Paolo II nel 2000 nel corso del Giubileo dedicato ai disabili così affermava: «A quanti hanno responsabilità politiche a tutti i livelli, vorrei chiedere in questa solenne circostanza, di operare affinché siano assicurate condizioni di vita e opportunità tali per cui la vostra dignità, cari fratelli e sorelle, sia effettivamente riconosciuta e tutelata».

È del tutto prevedibile che dopo l’approvazione della legge sulle Dat (Disposizioni anticipate di trattamento), la sentenza della Corte Costituzionale sulla depenalizzazione parziale e condizionata del “suicidio assistito” e la votazione della Regione Toscana in merito, tale legge possa essere approvata da altre Regioni e che si possa quindi aprire la strada verso il tentativo futuro di legalizzare l’eutanasia.

Alcuni iniziano a distinguere tra “vita” e “non vita”, tra “degna” e “non degna”, tra il “morire con dignità” e il “morire senza dignità”, etichettando così con soggettivi e arbitrari giudizi condizioni di vita fragile. E chi stabilisce se una vita è degna di essere vissuta? Lo Stato o una commissione medica? L’allocazione delle risorse? La persona, o in sua vece i propri cari? Dare la morte per “legge”, per pietà o, ancor peggio, per amore equipara l’essere umano a un qualsiasi altro essere vivente.

Chi si preoccupa minimamente, ad esempio, di quali siano le ragioni per cui un paziente possa formulare una richiesta suicidaria: senso dell’abbandono, peso economico per la famiglia? Riconosciamo che la richiesta di suicidio assistito nasce sovente dal rifiuto di continuare a vivere in condizioni di precarietà e grave sofferenza, ma dovremmo essere molto attenti a non accettare con facilità il disumano “per pietà”.

Nel 2007 così scriveva Mario Melazzini medico-scienziato affetto da Sla (Sclerosi laterale amiotrofica): «Nonostante sia costretto sulla sedia a rotelle, possa solo muovere due dita della mano destra, sia alimentato artificialmente tramite Peg (gastrostomia endoscopica percutanea) durante la notte, supportato dalla ventilazione, totalmente dipendente dagli altri, apprezzo sempre di più quanto sia bello vivere con dignità e sentirmi utile prima di tutto a me stesso, ma anche agli altri».

Questa testimonianza, certamente forte, invita a riflettere su quali possano essere le ragioni e le condizioni tali da portare a una richiesta di suicidio medicalmente assistito e che cosa quindi possa essere fatto, in concreto, da parte dello Stato, del Servizio sanitario nazionale, della comunità e dalla famiglia per ridurre al minimo queste richieste da parte del sofferente.

È certamente comprensibile infatti che, in particolari situazioni e al di là della propria condizione, la disperazione che un sofferente può notare nello sguardo di un genitore anziano o del coniuge, senza adeguata disponibilità economica, senza aiuti e non più sostenuto dalla forza di un tempo, possa portare, sentendosi un peso per la famiglia, a una richiesta di porre fine alla propria esistenza.

Essenzialmente, questa legge regionale a iniziativa popolare, richiesta dall’Associazione Luca Coscioni, verte su tre punti fondamentali: 1) ridurre i tempi di attesa tra domanda e decesso del richiedente, quantificata in 47 giorni; 2) far rientrare la prestazione nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e quindi rendendola gratuita; 3) nessun accenno al potenziamento delle cure palliative come normate dalla legge 38/2010.

Ci si chiede allora: come mai tanta solerzia riservata al ridurre i tempi di attesa del richiedente e non, viceversa, altrettanta sollecitudine per abbreviare le liste d’attesa di chi, al contrario, vuol vivere attraverso una rapida diagnosi e terapia? E ancora: perché tale prestazione che procura la morte viene inserita nei Lea quando, al contrario, non vengono fornite determinate indagini diagnostiche e le relative terapie dal Ssn, che viene così svuotato dalla sua primitiva funzione che è quella di fornire salute e non di procurare la morte? E infine: perché non sono state applicate su larga scala in tutto il Paese le cure palliative?

Attualmente gli hospice in Italia sono poco più di 300 con circa 800 medici, quando ne occorrerebbero nel prossimo decennio almeno 3.500. In particolare, attualmente la Regione Toscana a fronte di circa 3.700.000 abitanti ha 30 hospice con 206 posti letto, certamente numeri non sufficienti ad assicurare una corretta copertura del territorio in materia di cure palliative.

Quando si trattano temi sensibili quali quelli di decidere se interrompere o meno una vita umana crediamo che non debba essere un Consiglio regionale a dover decidere – di mezzo ci sono biologia, medicina, conoscenze scientifiche e considerazioni giuridiche e morali che devono esser ben comprese e valutate – quanto piuttosto una legge dello Stato. In altre parole, non crediamo che la vita possa essere “messa ai voti “. Sembrano esser scomparsi nell’odierna società quei limiti comportamentali che in passato rendevano l’uomo capace di privilegiare l’etica a fronte di un disordine morale oggi, al contrario, divenuto norma.

Nel 1962 uscì un film di grande successo diretto da Terence Young, Agente 007. Licenza di uccidere: mai avremmo potuto immaginare allora che, 63 anni dopo, la “licenza di uccidere” si sarebbe potuta realizzare. Perché proprio di questo si tratta, anche se la maggior parte dei cittadini, spesso in una totale inconsapevolezza, non si rende conto a quale deriva etica potrà portare l’applicazione di questa legge regionale.

È cosa certa infatti che, in un prossimo futuro, la richiesta di suicidio assistito supportato da motivazioni giuridiche non si limiterà solo a casi selezionati di sofferenza “insopportabile” ma si estenderà nel tempo ai più vulnerabili: disabili, anziani non autosufficienti, emarginati, malati terminali, disperati. Un domani infatti, dove gli investimenti assistenziali non fossero più sufficienti a garantire un’adeguata assistenza sanitaria perché non reperire le risorse magari eliminando le categorie più fragili?

La domanda quindi è se sia eticamente accettabile che una Regione si preoccupi di trovare strumenti e risorse per assicurare una “buona morte” o piuttosto assicurare una vita dignitosa anche nella malattia a chi vuol vivere. Basti pensare solamente ai malati non autosufficienti quei genitori anziani, spesso con pensioni minime e senza aiuti, non riescono più neanche fisicamente ad accudire in casa.

È certamente molto più facile, ed economicamente più conveniente infatti sostenere il suicidio assistito piuttosto che farsi carico della persona al crepuscolo della propria esistenza, che per ragioni psico-fisico-sociali spesso si trova indotta a una richiesta suicidaria.

Chi si preoccupa minimamente del perché e di quali possano essere le ragioni per le quali un sofferente può giungere a una richiesta di morte? Forse perché ha dolore, o difficoltà respiratoria, o magari è trascurato dal suo medico curante? Ha accesso alle cure palliative? È assistito adeguatamente dall’Adi (assistenza domiciliare integrata) nella sedazione del dolore, nella ventilazione con ossigenoterapia e bronco-aspirazioni corrette e periodiche? È curata la sua igiene personale?

Si è dibattuto, spesso e a sproposito, su termini quali autodeterminazione, accanimento o abbandono terapeutico, ma chi se non il medico, che conosce il paziente, la sua storia clinica, il suo vissuto, le sue fragilità oltre che fisiche anche psicologiche, può essere in grado di aiutare e capire il perché di un eventuale rifiuto della terapia, o ancor più di una richiesta di suicidio assistito?

Il grande vulnus antropologico, filosofico e bioetico è rappresentato dall’ambiguo concetto che si ha a proposito del principio dell’autodeterminazione: se da un lato di fronte a una richiesta di morte ha valore la volontà del paziente supportato dallo Stato attraverso il Ssn, che in tal modo “cambia” il proprio ruolo da distributore di salute a datore di morte, dall’altro, al contrario, di fronte a una richiesta di voler continuare a vivere i fragili vengono spesso lasciati soli e abbandonati alla propria condizione di sofferenza.
Non saranno certamente i Consigli regionali, mettendo “la vita ai voti”, a rispondere alle problematiche legate al fine vita, quanto piuttosto il ristabilire quell’alleanza terapeutica nel rapporto medico-paziente che, sola, potrà accompagnare il sofferente a morire con dignità.

Dovere del medico pertanto sarà quello non di essere datore di morte ma, al contrario, di assistere il morente nelle sue necessità, assicurandogli un sereno distacco dalla vita terrena attraverso un’adeguata idratazione, una corretta terapia del dolore, un’idonea ventilazione e da ultimo – ma non ultima – un’accurata igiene della persona, assicurando in tal modo al sofferente il sollievo, la dignità e il rispetto del proprio corpo.

Non vogliamo parlare di eutanasia (“buona morte”) per i nostri fratelli sofferenti, ma piuttosto di eubiosìa (“buona vita”), cercando quindi di assicurare un fine vita sereno, nel rispetto della dignità del malato. Per far questo dovremo impegnarci a far sì che venga rispettata e applicata su larga scala la legge 38 (15 marzo 2010) sulle cure palliative per assicurare il controllo della sintomatologia e la migliore assistenza ai più deboli. «La legge sulle cure palliative – ha scritto con chiarezza la Presidenza della Cei nella sua citata nota sul fine vita – non ha trovato ancora completa attuazione: queste devono essere garantite a tutti, in modo efficace e uniforme in ogni Regione, perché rappresentano un modo concreto per alleviare la sofferenza e per assicurare dignità fino alla fine, oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo».

Il problema nell’affrontare le fragilità che si accompagnano al fine vita non deve essere, pertanto, quello di estendere il più possibile il “diritto” al suicidio assistito attraverso l’autodeterminazione quanto piuttosto creare presupposti che non portino alla disperazione e quindi a una richiesta di morte, attraverso l’accompagnamento a una fine dignitosa che unisca in una triade sofferente, medico e famiglia.
*Presidente nazionale Amci-Associazione medici cattolici italiani

Se non sei ancora abbonato alla newsletter settimanale gratuita di Avvenire su bioetica, cura e salute CLICCAQUI


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI