
Maria Letizia Russo con la sua assistente all'uscita dell'udienza - /Picariello
Esiste il diritto alla vita, non quello al suicidio. «Mi piacerebbe uno Stato che dicesse che la mia vita è importante e la difende da tutti, anche da me». Nel Palazzo della Consulta emerge la testimonianza estremamente forte di una persona estremamente debole, Maria Letizia Russo: è una dei quattro pazienti affetti da patologie irreversibili (ma non dipendenti da «trattamenti di sostegno vitale») che la Corte Costituzionale ha ammesso nel giudizio sul fine vita. «Non si può fare affidamento sulla mia volontà nel momento di debolezza. L’autodeterminazione è viziata dal dolore e anche dal peso che sentiamo di essere sulle spalle delle nostre famiglie». Per Maria Letizia, intervenuta all’udienza in carrozzina, l’articolo 580 del codice penale è «una cintura di protezione, ed è importante mantenere questo paletto con cui lo Stato ci dice: la tua vita è tanto importante che io la tutelo da tutti, anche da te».
La Corte, nell’udienza pubblica, ha ammesso il suo intervento, così come quelli di altri tre malati non presenti in aula. In particolare, chiedono di non accogliere la questione di legittimità sollevata dal gip di Milano nell’ambito di un procedimento a carico di Marco Cappato, indagato per aver accompagnato due persone, malate di patologie irreversibili ma non legate a trattamenti di sostegno vitale, a morire in Svizzera.
I giudici costituzionali sono dunque chiamati a verificare se sia o meno conforme alla Costituzione l’articolo 580 del codice penale, che condanna il suicidio assistito, «nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, e che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita». Sono, come è noto, i criteri indicati dalla Consulta che rendono non condannabile un comportamento che resta vietato dalla legge.
In attesa del pronunciamento c’è grande soddisfazione da parte dei legali dei quattro malati di patologie giudicate “irreversibili”, gli avvocati Carmelo Domenico Leotta e Mario Esposito, perché per la prima volta in un procedimento sul fine vita alla Consulta vengono riconosciuti come “portatori di interesse a partecipare al processo”, malati con prognosi infauste che si oppongono al suicidio assistito. Una «grande vittoria» la definisce l’avvocato Leotta, rafforzata dalla posizione espressa dall’avvocato dello Stato Ruggero Di Martino, che nel suo intervento ha ribadito che «non c’è un diritto al suicidio né un obbligo dei medici di concorrere a una volontà suicidaria». Gli avvocati Leotta ed Esposito registrano anche con favore il fair play processuale della difesa di Marco Cappato che non si è opposta agli interventi dei loro assistiti.
Alla Corte Costituzionale ha avuto inizio così l’udienza pubblica, giudici relatori Viganò e Antonini, la quarta avente per oggetto il suicidio assistito. I casi in esame sono quelli di una donna ed un uomo, la prima paziente oncologica, il secondo malato di Parkinson, accompagnati in Svizzera a morire da Marco Cappato, l’attivista dell’Associazione Luca Coscioni a cui si erano rivolti e a cui avevano chiesto aiuto per accedere al suicidio assistito all’estero in quanto, pur essendo malati terminali, in Italia non ne avevano diritto. I due non erano infatti tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale previsti fra i criteri scriminanti dalla sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 sul caso Cappato-Dj Fabo. Ma altri pazienti (con Maria Letizia Russo, Dario Mongiano, Lorenzo Moscon, più un quarto che chiede di non rivelare la sua identità) partendo dall’autodenuncia di Cappato, hanno rivendicato viceversa il loro diritto alla vita anche se oberati da malattie gravi con prognosi infausta.
La prima novità quindi, come detto, è che la Corte ha ammesso i quattro intervenienti ad opponendum fra i quali c’è Maria Letizia Russo, presente in carrozzina con la sua assistente.
Nel settembre 2023 la procura di Milano aveva chiesto l’archiviazione del caso. Ma il gip del tribunale di Milano, il 21 giugno 2024 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale che punisce con la reclusione da 5 a 12 anni «chi agevola l’altrui suicidio, nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale» agendo quindi al di là della ristretta casistica individuata dalla Consulta.
L’udienza, presente fra il pubblico Marco Cappato, si è aperta con gli interventi dei difensori di Cappato (gli avvocati Tullio Padovani, Maria Elisa D’Amico, Filomena Gallo). Hanno poi preso la parola gli avvocati Leotta ed Esposito a tutela dei loro assistiti che viceversa chiedono il diritto alla vita. Poi per lo Stato, è stata la volta di Ruggero Di Martino e Gianna Maria De Socio. Al centro della discussione la dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale e la stessa portata del concetto, in assenza di un intervento del legislatore, non arrivato in questi sei anni dal pronunciamento della Consulta.
In un comunicato esprimono «piena soddisfazione» gli avvocati Leotta ed Esposito, a nome dei loro assistiti, «malati affetti da patologie irreversibili non sottoposti a trattamento di sostegno vitale. Contrari alla pratica del suicidio assistito e, a maggior ragione, al suo ampliamento». Ed esprimono «apprezzamento» perché la loro richiesta di intervento è stata sostenuta dall’Avvocatura dello Stato; e per la scelta della difesa di Cappato che non si è opposta all’intervento dei malati contrari al suicidio assistito. «L’ordinanza ammissiva della Corte Costituzionale, al di là di quella che sarà la decisione sulla questione di legittimità costituzionale, rappresenta un segnale di lodevole attenzione da parte della Corte».