
In effetti, la domanda è proprio questa: se non volete il suicidio assistito perché volete andare in Corte costituzionale? Nessuno vi obbliga a chiederlo. E invece le quattro persone che domandano di intervenire all’udienza di mercoledì 26 sono ferme nel dire che sono portatrici di un interesse nel giudizio di costituzionalità sull’articolo 580 del Codice penale, nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio della persona capace di decisioni libere e consapevoli, affetta da patologia irreversibile e da sofferenze intollerabili, ma senza trattamento di sostegno vitale. Su cosa sia il trattamento vitale ci sono opinioni diverse; a ogni modo, la sentenza n. 135 del 2024 ha ritenuto che lo integrino «le procedure [...] necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».
La questione di costituzionalità verte sul fatto che la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio sia subordinata alla necessità del trattamento: si tratta di un vincolo che, per il gip di Milano, renderebbe incostituzionale l’articolo, sostanzialmente perché restringerebbe irragionevolmente la non punibilità dell’agevolatore e limiterebbe troppo la libertà di chi, soffrendo, chiede di essere aiutato a darsi la morte. Chiarito su cosa deciderà la Corte, torniamo alla domanda iniziale: perché dei malati che non sono sottoposti a trattamento vitale, e il suicidio assistito non lo vogliono, chiedono di essere parti nel processo? Perché hanno capito bene cosa dice la Corte costituzionale nella sentenza n. 242: l’incriminazione dell’aiuto al suicidio è una norma che, lungi dal danneggiarli, li protegge, anzi, è necessaria per la tutela della vita dei vulnerabili, è una cintura di protezione. Ma protezione da cosa? Da un intervento dei terzi che assecondi una volontà distorta, deformata dal dolore e spesso anche accidentale di chi vuole morire.
Se si parte da qui, si capisce che la decisione del 26 marzo avrà una inevitabile ricaduta sulla protezione del diritto alla vita degli intervenienti; infatti, laddove il requisito del trattamento vitale fosse espunto, perché ritenuto incostituzionale, la tutela della vita di queste quattro persone vulnerabili resterebbe unicamente affidata alla conservazione della loro volontà di vivere a prescindere da un giudizio oggettivo di gravità delle loro condizioni, insito nella necessità del trattamento vitale. Per chi sta bene, si fa in fretta a concludere (come qualcuno ci ha detto) che la volontà di vivere basta a conservare la vita, ma i nostri malati, che di libertà, vita e malattia ne parlano poco, pur portandone i segni sul loro corpo, raccontano nelle memorie presentate alla Consulta che hanno già vissuto momenti in cui la vita è diventata intollerabile. E ce l’hanno fatta non per la loro forza di volontà ma per la vicinanza di altre persone.
Se ora la Corte togliesse il requisito del trattamento, hanno capito che la tutela della loro vita dipenderebbe soltanto dalla capacità di resistenza. E hanno interesse a che ciò non avvenga. È come mettere una pistola carica sul comodino di chi sta male. Loro la pistola non la vogliono. Anzi, la sola idea che gliela si lasci sul comodino – solo sul loro, perché sono malati – suona come offesa alla dignità, a dire “se ci ripensi, premi pure il grilletto, tanto la tua vita è disponibile perché vale meno di quella di tutti gli altri, che della vita non possono disporre (e infatti la pistola a loro mica gliela lasciamo...)”. Ma allora Dario e compagni sono contro la libertà? No, sono per la vera libertà, che non è quella di darsi la morte ma di essere liberi dalla disperazione e, per quanto possibile, dal dolore. Uno di loro scrive nella sua memoria: «Vivo le mie sofferenze dando a queste un senso grazie a ciò in cui credo, e mi riconosco in possesso di una dignità che è uguale a quella di tutti gli altri. Chiedo allo Stato di riconoscermi per come sono: un uomo malato, bisognoso di cure più efficaci, capace di intendere e di volere, la cui vita non vale meno di quella di altre persone sane. Chiedo di essere ammesso in questa causa perché la Corte possa decidere tenendo in conto di questo interesse». Ci sale un brivido lungo la schiena. Queste sono le storie di chi, forse, “non voleva essere un duro” ma lo è diventato. Un eroe di tutti i giorni, di quegli eroi che, senza parole, ci insegnano che la vita vale. Sempre. Grazie per averci affidato la vostra difesa.
*Ordinario Diritto Costituzionale Università del Salento
**Associato Diritto penale Università Europea di Roma