sabato 29 marzo 2025
Il cardinale Repole alla "Biennale Democrazia" di Torino: la riflessione religiosa aiuta a vedere cos'è davvero la guerra. I giovani non vogliono conflitti, sperano di avere un futuro
Il cardinale Roberto Repole

Il cardinale Roberto Repole - Fotogramma

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Pubblichiamo la relazione tenuta dal cardinale Roberto Repole venerdì 28 marzo alla “Biennale Democrazia” di Torino, nell’ambito di un dibattito interreligioso presso il Teatro Carignano sul contributo delle religioni alla costruzione della pace (“Fedeli alla pace”).

Parto da una possibile precomprensione: l’idea che quando si affronta il tema della pace dal punto di vista delle religioni si facciano parole edificanti, idealmente condivisibili, ma lontane dalla concretezza dei problemi del mondo.
Io vorrei argomentare esattamente al contrario: vorrei osservare il realismo profondo della riflessione religiosa e specificamente cristiana rispetto al tema della pace.
La possibilità di vedere con estremo realismo – senza doversi negare nulla – tutto quanto si oppone ed è antitetico alla pace matura dalla fede nel Figlio di Dio che ha assunto la nostra umanità, che non è alieno a nulla di ciò che è umano e che dà peso e dignità ad ogni singolo uomo, per il fatto stesso che è un uomo, e matura dalla fede nel Risorto che spalanca all’umanità orizzonti di riconciliazione perenne e di pace, nel senso anche della pienezza di vita.
Nella prospettiva cristiana si può anzitutto vedere con assoluto realismo che cosa ci consegnano le guerre, tutte le guerre combattute nella storia dell’umanità. È un realismo che proviene non solo dal guardare alla macrostoria, in genere scritta dai potenti, ma dalle microstorie che sono la più profonda realtà. La storia di ragazzi uccisi in giovane età, quella di madri e padri che portano per tutta la loro esistenza il trauma di un figlio morto, figli che non conoscono i genitori, amputazioni nel corpo e amputazioni nell’anima di migliaia di persone, rabbia, odio e desiderio di vendetta che genereranno ulteriori guerre...
L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Quello che mi preme dire è che solo uno sguardo capace di vedere tutto questo è realista, ogni altro sguardo è fuori dalla vita e dalla realtà ed è ideologico. Non è un caso che un certo pensiero personalista ed esistenziale (penso a Emmanuel Mounier o a Gabriel Marcel) sia sorto nell’alveo della fede cristiana ed abbia saputo mettere a tema semplicemente queste vicende di vita.
La guerra è anzitutto questo. Ed ha ragione Alessandro Barbero, che ha parlato qui alla “Biennale Democrazia” due giorni fa, a dire che noi studiamo i motivi delle insorgenze delle guerre, però ci disinteressiamo degli effetti. Sarebbe questo il realismo?
La riflessione religiosa aiuta a vedere cos’è davvero la guerra. Che sia una riflessione realista e meritevole di considerazione, lo ricaviamo anche dalla constatazione che le altre letture del mondo, quelle dominanti, sembrano oggi incapaci di trovare soluzioni per la pace. Il 2024 ha visto combattere nel nostro pianeta 56 conflitti: è il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale, coinvolge 92 Paesi. Gli eserciti stanno tornando ad armarsi, si respira grande rassegnazione alla guerra e stiamo imponendo questa rassegnazione ai nostri figli con totale mancanza di amore. I giovani non vogliono la guerra, sperano di avere un futuro.
Sarebbe bello poter dire che questo nostro mondo iper-tecnologico, iper-scientifico è capace a trovare soluzioni efficienti per la pace, ma non è vero, non le sta trovando, la tensione sta crescendo... Si mettono toppe agli scenari di guerra, si ragiona sulla deterrenza e ci si arma, ma percepiamo che i problemi restano sotto la brace e rischiano di ripresentarsi. L’unica cosa che l’ipertecnologia sembra capace di offrirci è qualche strumento di uccisione più sofisticato e più capace di distruggere l’umanità intera. Lo si vedeva con chiarezza già negli anni ’60: penso alla denuncia forte e accorata di Giovanni XXIII con la “Pacem in terris” e penso all’ultimo capitolo della “Gaudium et spes”. Cosa ci manca?
Credo che ci manchi la disponibilità a riconoscere le logiche del nostro vivere, che stanno dietro al conflitto. Queste logiche – non solo al livello dei governi, ma nelle nostre relazioni personali, nei nostri progetti di vita, nella vita quotidiana – sono oggi riconducibili in grande prevalenza a criteri economici. Solo economici. Sembra che non esista altra chiave interpretativa: la lettura economica della vita ha preso il sopravvento su ogni altra lettura e si pone come unica prospettiva di senso, come unico metro di regolazione dei rapporti fra gli uomini.
Si sono formate generazioni (di gente comune, ma anche di professionisti, analisti, dirigenti politici) convinte che la vita sia tutta una questione di vendere e comprare. E che l’uomo possa essere felice e possa vivere in pace così. Ma guardiamo dove stiamo andando: una piccola parte del mondo sta diventando sempre più ricca mentre l’altra si fa sempre più povera, viene messa ai margini e si prepara alla vendetta.
La legge del denaro, se è assunta come unico criterio, è la legge del più forte, sia nella vita privata che in quella pubblica. È la legge della giungla e non possiamo stupirci che degeneri nelle guerre: è un esito quasi assicurato. Ecco il problema: abbiamo rimosso dalla nostra vita ogni altro criterio di senso.
Ma c’è di più. Tutto questo si consuma dentro un mondo che viene pensato – e questo viene passato per realismo! – come chiuso in sé stesso, privo di qualunque trascendenza. Ebbene, il cristianesimo permette di vedere con estrema lucidità che quando l’uomo, come diceva Mounier, si riduce ad essere «un mostro di inquietudine» e come diceva Agostino, portando in sé un desiderio di infinito (cor meum est inquietum donec requiescat in te) lo confina dentro mura di finitudine, allora abbiamo l’innesco per ogni forma di violenza. Fa sempre riflettere la lezione contenuta ne “L’action” di Maurice Blondel laddove questo autore coglie che un desiderio infinito, rivolto a un oggetto finito incapace di soddisfarlo, è fonte di inevitabile violenza.
La riflessione cristiana insinua l’esistenza di altre prospettive di senso. Muove dall’affermazione che il mondo non si è creato da solo: è stato creato da Dio ed è quindi in Dio che risiede la chiave per comprendere lo statuto dell’essere umano. Cancellando Dio dall’orizzonte, l’umanità si affida a logiche che non bastano a se stesse e constatiamo un mondo allo sbando.
La tradizione cristiana vede poi l’uomo come creato ad immagine di Cristo e trova in questo la radice di un desiderio di relazione, di spinta a trascendersi, di propensione a vedere l’altro non come una minaccia, ma come un alleato. Se anche oggi, negli scenari attuali, ci sono milioni di donne e di uomini che non vogliono la guerra è anche perché forse questo desiderio è insopprimibile.
Credo davvero che ci sia profondo realismo nella riflessione religiosa là dove essa intuisce la necessità di alzare lo sguardo e cercare criteri diversi dalla legge della giungla. In questa prospettiva, interrogarsi su Dio non è una caduta dell’intelligenza, neanche per coloro che si dichiarano non credenti: dovrebbe essere considerato molto intelligente che tutti ci si domandi se esiste una lettura del mondo superiore a quella che ci siamo costruiti da soli.
Se l’orizzonte fosse solo quello immanente, se la vita fosse frutto del caso, se non avesse alcun senso al di là della constatazione di sè stessa e non ci fosse alcuna tensione alla trascendenza, ci potrebbe essere il rischio di accettare ogni tipo di comportamento, perché no? Si può finire anche per uccidersi a vicenda e vinca il più forte. È esattamente quello che accade. E che senso avrebbe anche il tanto sbandierato dialogo a cui ricorriamo nelle società occidentali, in assenza di qualsiasi prospettiva di verità?
Senza orizzonti di senso rischiano di restare in piedi solo le regole dell’economia e della tecnologia, così che non dobbiamo stupirci se si fa business anche con la terribile produzione delle armi: perché no?
C’è poi un ultimo aspetto. Il cristianesimo è realista anche perché ci fa vedere, su queste basi, che la pace non è solo l’assenza di guerra. Si può vivere senza guerra e preparare esteriormente – con politiche di ingiustizia – le condizioni per la guerra. Così come si può vivere in assenza di guerra e coltivare interiormente sentimenti di rabbia, di vendetta, di odio, di violenza.
La visione della pace del cristianesimo è decisamente più ampia dell’assenza di guerra e della tranquillità inerme. Per questo Gesù dice: «Vi do la pace, non come la dà il mondo». Questa pace più profonda chiede la fortezza di combattere con se stessi, contro la radice di ogni passione che molti padri dell’antichità rintracciavano nella “filautìa”, cioè l’amore distorto per se stessi.
Cardinale
arcivescovo di Torino

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