
Un'infermiera del "Bambino Gesù" con un neonato
Portare speranza di cura lì dove forse non se ne avrebbe, che significa rendere effettiva quella «fraternità praticata» essenza del Giubileo. Il senso dei progetti internazionali che «tra consolidati e in fase di avvio vede il Bambino Gesù operare in 25 Paesi» è proprio quello di «mettere a disposizione dei bambini del mondo le nostre competenze, le conoscenze mediche, la capacità di assistere e l’innovazione». Il presidente dell’ospedale pediatrico della Santa Sede Tiziano Onesti descrive l’atteggiamento con cui vengono intraprese le missioni all’estero, «che è sempre stato quello di attuare la missione apostolica del Santo Padre e della Chiesa cattolica nel mondo. Questo è il modo di agire del Bambino Gesù, che mette al centro i bambini e le loro famiglie, dando cura e attenzione nel tempo».
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Cosa vi chiedono dall’estero?
Sia innovazione che formazione, insomma il mettere a disposizione di tutti le conoscenze mediche che abbiamo e il nostro modello. In tema di formazione, ad esempio, stiamo investendo molto nello scambio tra specialisti, anche attraverso la formazione online continua e la telemedicina. Ci è stata chiesta formazione anche per la parte infermieristica e amministrativa, ad esempio a Bangui e ora in Costa d’Avorio o in Kurdistan. Quest’ultima regione, dove dovremmo andare prossimamente, non ha un ospedale pediatrico e ci hanno chiesto una collaborazione. E noi rispondiamo sempre a chi chiede aiuto, non ci siamo mai tirati indietro. Tanto per dare qualche dato, negli ultimi 6 mesi 28 tra medici e infermieri provenienti da Ucraina ed Ecuador sono stati nel nostro ospedale per scambi formativi, ci sono state più di 100 ore di formazione online e oggi sono presenti 2 bambini con gravi patologie provenienti da Gaza. Ma anche noi impariamo dai contesti dove andiamo. Innanzitutto impariamo da quella rete che ha la Chiesa: tramite i nunzi riesce a captare il fabbisogno sanitario di un Paese. L’impegno internazionale, inoltre, significa per noi portare a Roma, insieme alle loro famiglie, dopo uno screening in loco, i casi di alta complessità medica, grazie al sistema di accoglienza dell’ospedale, molto sviluppato e ben collaudato anche con il supporto della rete del volontariato.
Lei è appena tornato da un viaggio in Giordania, dove il Bambino Gesù opera dal 2013 nell’ospedale italiano di Karak. Che situazione ha trovato?
In Giordania la nostra collaborazione a Karak è ormai decennale e la dedizione delle suore comboniane, che gestiscono l’ospedale in maniera impeccabile, è fondamentale. In questo momento tutti si sono mossi nel Paese per accogliere i bambini di Gaza. Andare in Giordania e vedere i campi dei profughi siriani è stato toccante, i bambini spesso sono nati lì dentro. I genitori di cinque di loro ce li hanno portati in braccio chiedendo di fare subito l’intervento chirurgico. Queste sono le immagini che ci siamo trovati davanti ed è questo che si aspettano da noi.

Lì ci sono progetti in cantiere?
La nostra idea è quella di lavorare insieme all’ospedale di Amman (Jordan Universital Hospital), mettendo a sistema tutto ciò che già facciamo lì e facendo interagire l’équipe medica italiana insieme a quella in loco per aiutare i profughi. Ne abbiamo parlato con tutte le rappresentanze massime del Paese, valutato insieme il flusso di cure possibili, i letti a disposizione, quelli inutilizzati, anche le suore a Karak ci hanno messo a disposizione una decina di camere. Per questo progetto stiamo avviando una convenzione con il Ministero degli Esteri. La novità a livello internazionale è che l’ospedale si muove a “cavaliere” tra la Santa Sede e il governo italiano, a fianco della rete delle ambasciate dei Paesi ove operiamo, e quindi gli interlocutori sono tanti. Questo credo che sia il senso della diplomazia della speranza che il Santo Padre ha inteso per il Giubileo che stiamo vivendo.

Il senso degli interventi in Paesi lontani è quello di portare speranza di cura e formazione in posti in cui altrimenti non ci sarebbe. Nell’anno del Giubileo questo è un messaggio di “applicazione sul campo”...
In alcuni contesti non è facile sperare nelle cure, dovunque c’è modo di dare speranza ci rendiamo disponibili. Ma è importante ribadire che quando andiamo in certi luoghi riceviamo speranza, c’è sempre un rapporto di reciproco scambio. Davanti a certi contesti relativizzi molto la tua scala di priorità, come ultimamente in Giordania. A Seul, dove siamo stati recentemente, tocchi con mano la capacità della Chiesa locale di dare risposte ai bisogni, indipendentemente dalla religione di appartenenza. Lì vedere come la Chiesa ha costruito un ospedale di altissimo livello è stato impressionante. C’è un sistema di cure diverso con cui ti confronti. E si trovano le risposte insieme.
Infermiere nell'anticamera delle sale operatorie - Vatican Media
Il Papa ha definito gli operatori sanitari «angeli di speranza»: è un’immagine che avete percepito nei contesti internazionali?
Ti senti certamente angelo di speranza nei contesti più disagiati, lì vedi proprio la responsabilità del ruolo che hai. Ti senti angelo di speranza ma devi andare con approccio umile, non devi importi dall’alto, forse alta è l’esperienza che porti. Lì capisci che sei nato nella parte più agevolata del mondo e questo ti porta a riflettere sul senso di quello che fai; ecco cosa intendo quando dico che ti relativizzi e dai meno importanza al tuo ego, cercando di dare risposte a chi ti guarda come angelo di speranza. Mi è successo nel campo profughi di Za’atari, quando un papà mi ha detto che voleva tornare in Siria ma se noi avessimo operato il figlio lui sarebbe rimasto lì ad aspettarci.

Siamo nei giorni del Giubileo del mondo della sanità. Qual è per il Bambino Gesù il senso di queste giornate?
Il Giubileo è per me da intendersi come preghiera collettiva. Al di là del ruolo che la preghiera ha per chi ha fede, richiamare l’attenzione sui malati con un Giubileo dedicato come ha fatto il Papa credo sia importante. Per me la preghiera è un momento in cui tu liberi l’energia che nasce dal contatto con Dio. La preghiera collettiva genera ancora più energia, perché innanzitutto nella preghiera collettiva ti riconosci come comunità e nella condivisione di un dolore che così è più sopportabile. Pregando insieme diventi forte come mondo della sanità, anche con le azioni, con il modo di fare, con il tuo quotidiano. Andiamo con questo spirito.
Quali “segni di speranza” vede per il mondo della sanità oggi?
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La speranza è innanzitutto prendere consapevolezza che il Ssn è da preservare. Non è tutto oro, ci sono forti diseguaglianze, ma la speranza è trovare le risorse perché questo sistema – anche se imperfetto – possiamo continuare a preservarlo puntando su efficienza, efficacia e sostenibilità. La ricchezza, in Italia come all’estero, è concentrata in certi settori: la speranza è che venga impiegata a servizio di tutti per i fabbisogni esistenziali. La speranza è che questa consapevolezza diventi sistema, e diventi una forza, quasi una preghiera collettiva che esprima energia per poter riequilibrare le risorse che ci sono: e sono tante, ma sono distribuite in modo ineguale. Nel mondo della sanità dobbiamo lavorare per saper esprimere una fraternità sentita, non solo a parole. Una fraternità praticata.