lunedì 7 aprile 2025
Il sacerdote milanese, malato da sei anni, si racconta: «Mi si è mostrato il mio limite, ma nelle mani del Signor porta frutto con la gente che incontro e che mi vede zoppicare, infermo come loro»
Don Claudio Dell'Orto nella cappella dell'ospedale

Don Claudio Dell'Orto nella cappella dell'ospedale

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Come si fa ad “addomesticare” una malattia degenerativa e progressiva che piomba all’improvviso nella vita, fino a parlare di «amicizia» con lei? Don Claudio Dell’Orto, classe 1967 e prete dell’Arcidiocesi di Milano dal ’92, ci sta provando da sei anni, cioè da quando ha ricevuto la diagnosi del morbo di Parkinson mentre era viceparroco a San Michele Arcangelo in Precotto, cappellano di un ospedale riabilitativo e di una Rsa milanesi: tutti impegni pastorali che continua a portare avanti. Purtroppo i sintomi iniziali della malattia si erano “camuffati” sotto i postumi di un incidente motociclistico del 2012: «Camminavo male, provavo dolore al braccio e alla gamba sinistra, li muovevo male. Ma lentezze e dolori erano dovuti al blocco muscolare che stava progredendo», spiega il sacerdote, originario di Desio (provincia di Monza Brianza) e quinto di sette fratelli, fra i quali un altro sacerdote diocesano, don Umberto, e un frate minore, padre Giuseppe.

La prima reazione? «Ho provato un rifiuto, sperando che avessero sbagliato la diagnosi. Ma sono stato aiutato a fare mia la situazione da una neurologa, che ha parlato subito chiaro: “Non si muore di Parkinson, ma con il Parkinson”. Quindi, da iniziale cattiva compagna, la patologia è diventata una croce da portare ogni giorno come fanno tanti altri malati e che devo farmi in qualche modo “amica”». Dal punto di vista spirituale, significa «credere davvero che è il Signore a guidare nel cammino. Non sono un masochista: la malattia dice il mio limite, ma nelle mani del Signore porta il suo frutto straordinariamente efficace per la gente che incontro e mi vede zoppicare, malato fra i malati. Una condivisione che arricchisce anche me».

Infatti «scegliere di stare nella malattia con fede, sentendomi non abbandonato ma semmai ancora più legato a Gesù mi ha fatto scoprire che il rallentamento delle capacità motorie non è necessariamente da vivere come una “maledizione”: avere delle limitazioni non è una condanna», puntualizza don Claudio. Anzi, avere la necessità di soste, pause, riposo «mi porta a gustare di più le relazioni con gli altri e a valorizzare tanti aspetti della vita che rischio di dare per scontati, come camminare su un sentiero di montagna o riuscire a stare in ginocchio a pregare. Anche questa è una grazia legata alla malattia». Che sta addomesticando, anche «dando fiducia alla cura farmacologica, con un equilibrio da gestire fra psicofarmaci per la depressione e farmaci che agiscono sul sistema nervoso. Poi grazie a fisioterapia e idrochinesi in acqua si avvertono miglioramenti». Infine la dieta: «Devo seguire un’alimentazione che permetta alle medicine di essere ben assorbite».

In questi anni don Dell’Orto è stato sollecitato da alcuni confratelli a rendere pubblica la sua testimonianza, che porta anche nelle parrocchie, attingendo al suo diario della Quaresima 2024. Così è nato il volume Incontro alla Pasqua. Itinerario di speranza nella malattia, appena edito da Ancora, cui ne seguiranno altri ai quali sta lavorando. «Ho scoperto questo lato di me che era nascosto: mi dicono che ho una scrittura semplice ma profonda, che arriva al cuore. E mi dà gioia sapere che alcuni lettori si trovano in sintonia e non si sentono soli nella sofferenza che vivono». Padre Giuseppe Valsecchi, ad esempio, della congregazione dei Somaschi, condivide con don Dell’Orto la patologia (che in Italia colpisce più di 300mila persone) e, oltre a sostenerlo con la preghiera, ha deciso di parlare del suo libro a un gruppo di suore a cui predicherà gli esercizi spirituali.

Se il suo ministero è cambiato nei ritmi e nella modalità, «do quello che posso come presenza che ascolta, dialoga e guarda: posso garantire continuità nell’accompagnamento, nella direzione spirituale, nelle confessioni», confida don Claudio. «Il Parkinson mi ha messo nella condizione di fermarmi, entrare in me stesso e scoprire altri aspetti della mia chiamata. Le difficoltà rimodellano come prete, fanno pensare a cos’è l’essenziale. A cosa lascerai».

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