La più brutta campagna presidenziale del dopoguerra è finalmente alle spalle: non ne sentiremo la mancanza. Alla fine vedremo se i soldi pesano più degli insulti: certo di idee se ne son viste poche dopo l’uscita di scena di Bernie Sanders. Per quello che abbiamo sentito, e per la caratura dei due candidati principali, sembra di essere tornati all’America bucolica, periferica e marginale di due secoli or sono, quella raccontata da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro La democrazia in America. Peccato che oggi ciò che succede nella politica americana influenzi la vita di tutti noi. Eppure, mai come in questa campagna, il mondo è sembrato assente dalla competizione. Non perché non fosse interessato o, per meglio dire, preoccupato. E neppure perché non fosse evocato come luogo da cui provenivano complotti o ingerenze (la Russia, la Cina, l’Arabia Saudita) o perché infestato di popoli da cui occorre proteggersi (i latinos, gli arabi). Ma per la sensazione amara e sgradevole che nessuno dei due intendesse indossare le insegne del "leader dell’Occidente", più che appagato di poter e voler diventare, semplicemente, "il capo degli Stati Uniti".
Al di là delle nefandezze di cui Hillary Cinton e Donald Trump si sono accusati negli ultimi mesi, resta un quadro miserevole dello stato di salute della più antica democrazia contemporanea: un processo di selezione sempre più lungo e costoso alla fine ha prodotto questa alternativa francamente deludente. Da un lato, un bislacco miliardario; dall’altro, una ex <+CORSIVOA>first lady <+TONDOA>in cerca di un riscatto anche personale. E l’America sullo sfondo. Se dovesse vincere Trump, la crisi del sistema partitico americano sarebbe definitiva e manifesta, tale da costringere a una sua integrale riforma. La vittoria di Clinton, paradossalmente, potrebbe illudere i democratici di essere ancora "un partito" e non una confederazione di interessi tenuti insieme, soprattutto, dal denaro rastrellato dalla vincitrice.
Di certo, delle due Americhe che si sono confrontate in queste settimane, nessuna appare capace di egemonizzare, sedurre, attrarre l’altra. Alla coalizione arcobaleno di Hillary sembrano sfuggire i millennials, i giovani dal futuro incerto nonostante la sempre più costosa istruzione e il ceto medio bianco e impoverito. Quest’ultimo, che una volta costituiva la spina dorsale del Paese, si è ritrovato in gran parte nei messaggi semplicistici e razzisti di Trump, convincendosi così sempre più di essere ormai solo la minoranza più consistente e, a un tempo, la meno rappresentata e la meno protetta. E i violenti disordini razziali che hanno accompagnato questa campagna sono lì a ricordarci che il rischio di una guerra civile strisciante, di una secessione contea per contea del "grande Paese" non è per nulla irrealistico.
Il nuovo presidente potrebbe così essere avvertito come "legittimo" solo dai "suoi", da una parte, ma non da tutti. Intendiamoci, è già capitato e anche a grandi presidenti, che però erano animati da una grande visione, da un progetto, come Abramo Lincoln. Ma sappiamo come andò a finire. Di sicuro, l’immagine della democrazia americana ne esce fortemente appannata e, con lei, della democrazia nel suo complesso. Tutte le democrazie occidentali sono infatti alle prese con una crescente faglia che le attraversa, una spaccatura tra l’establishment e quelli che ne contestano il sempre più marcato arrocco nei propri intollerabili privilegi. Ma non è solo questo a preoccupare. Ciò che ha rappresentato storicamente il punto di forza della democrazia sulle altre forme di governo è stato l’aver depotenziato il momento più rischioso per ogni regime politico: quello della transizione di potere.
Il meccanismo delle elezioni competitive tra candidati che si rispettino reciprocamente, infatti, rende meno traumatico questo passaggio, lo trasforma in un momento più ordinario. A condizione però che tutti ne accettino l’esito, senza contestazioni a priori o senza il sospetto che il risultato possa essere stato falsato da brogli o complotti. Tutto ciò è stato messo in dubbio da questa brutta campagna e non sarà privo di conseguenze. Comunque vada a finire, una cosa è sicura: il 45° presidente degli Stati Uniti non godrà certamente di quello 'stato di grazia' nei confronti del mondo che accompagnò Barack Obama per un lungo periodo, ben superiore ai canonici primi 100 giorni della cosiddetta 'luna di miele'. Dovrà risalire il vento e non sarà impresa facile né scontata.