«Devi abituarti a fallire». In una delle scene più toccanti del documentario-premio Oscar “No other land”, il palestinese Basel Adra spiega così all’amico israeliano Yuval Abraham il significato del suo attivismo nonviolento. Del resto, aveva sottolineato poco prima, non si può risolvere l’ingiustizia dell’occupazione in dieci giorni. Di fronte alla complessità della situazione, prima e soprattutto dopo il 7 ottobre, la scelta di Basel non è la resa bensì il suo opposto. “Fallire” specie in tempi di “performatività” a oltranza, è un termine che terrorizza poiché associato all’errore per antonomasia, secondo l’accezione latina. Nell’etimologia greca, però, la parola fallire include la dimensione del generare. È la forma più compiuta, dunque, di resistenza perché vive la caduta con lo sguardo rivolto verso l’alto. Anche quando si precipita in un abisso che non sembra avere fondo. Un abisso come Gaza.
Quindici mesi di guerra e oltre 49mila morti non sono stati sufficienti per giungere a un accordo che consentisse una vita degna ai due popoli della Terra Santa. È stato necessario oltrepassare abbondantemente la soglia dei 50mila, al ritmo di 90 vittime al giorno. Ancora una volta, il governo israeliano e Hamas sono incapaci di offrire un’alternativa al massacro senza fine. La “trappola dei conflitti intrattabili”, la chiama il prestigioso psicologo sociale Daniel Bar-Tal. Una gabbia che imprigiona le due leadership. A mostrare al mondo la chiave del labirinto sono, incredibilmente, quanti “sono abituati a fallire”.
Quelle donne e quegli uomini dell’una o dell’altra parte, per cui la ripresa delle ostilità non un ordine impartito dall’alto, un’alzata repentina al tavolo dei negoziati, un discorso infuocato di fronte alla piazza, virtuale o reale. Per loro i 540 giorni di conflitto si misurano in termini di corpi di familiari e amici straziati, chilometri percorsi nell’ansia di salvarsi, notti insonni per il boato delle bombe o per l’angoscia dei propri cari prigionieri in un tunnel. E per entrambi i popoli la misura è colma. Il “basta” risuona con assordante simmetria in Israele e Palestina. Inclusa – e questo il dato che sorprende e commuove al contempo – Gaza, l’epicentro dell’orrore. Da martedì, migliaia di abitanti della Striscia, da nord a sud, hanno sfilato per le strade, esasperati da chi li considera “carne da sacrificare sull’altare della causa” – secondo l’idea di Yahya Sinwar – o titolari di una colpa collettiva da scontare con il proprio sangue o pedine da spostare sullo scacchiere globale a seconda della convenienza, vedi il “piano Riviera” di Donald Trump. «Stop alla guerra», gridavano. E «stop ad Hamas». Un fatto inedito dato il rigido controllo esercitato società dal gruppo armato, al potere dal 2007 dopo aver trasformato la vittoria elettorale in un golpe permanente. Eppure l’impiego della forza non ha fermato la protesta che si è ripetuta nei giorni successivi. I miliziani hanno subito screditato il movimento come “eteroguidato”. Anche se non è possibile escludere che qualche sostegno effettivamente ci sia, chi conosce la realtà della Striscia sa che la rivolta è autentica e spontanea. E corrisponde al reale sentire della gran parte dei gazawi. Il movimento “We want to live”, composto in gran parte di giovani insofferenti verso le rigide regole di Hamas, risale nel 2019 e, prima della guerra, nell’agosto 2023, era riuscito a portare una folla in piazza a Khan Yunis. Il conflitto, gli sfollamenti di massa, la lotta quotidiana per la sopravvivenza hanno congelato la ribellione. Senza spegnerne, però, il fuoco. Già da mesi arrivavano segnali di forte malcontento da Gaza. Lo scorso dicembre, il quotidiano israeliano Haaretz aveva pubblicato la lettera di un anonimo dal titolo eloquente: «Prima di liberarci dell’occupazione, noi palestinesi dobbiamo liberarci da Hamas». Se, come affermano fonti attendibili, Israele è e resta per gli abitanti dell’enclave il “nemico storico”, il gruppo armato è considerato il principale responsabile delle sofferenze patite dopo il massacro del 7 ottobre. Come pubblicato da Mohammed su X: «Hamas non ha niente da offrirci. Deve andarsene».
Slogan drammaticamente simili a quelli gridati dagli israeliani da Gerusalemme ad Haifa. In questo caso, il bersaglio è Benjamin Netanyahu che catalizza diversi settori dell’opposizione. Parenti degli ostaggi e pacifisti lo accusano di perpetrare il conflitto per restare al potere, attivisti anti-corruzione e sionisti liberali lo attaccano per il silenziamento delle voci scomode – dal capo dello Shin Bet alla procuratrice generale – e gli intenti di controllare il potere giudiziario. Oltre il 70 per cento, in base gli ultimi sondaggi, non ha fiducia nel premier.
«Non ci rappresentano», gridano a Beit Lahia come a Tel Aviv rivolti ai rispettivi leader. Una grande della verità: fin dal 7 ottobre questi due popoli hanno dimostrato di avere maggior lungimiranza, creatività, saggezza, di chi dovrebbe rappresentarli. Con questa consapevolezza, l’Alleance for Middle East Peace (Allmep), rete di cui fanno parte 170 associazioni israeliane e palestinesi, chiede da mesi alla comunità internazionale per includere le rispettive società civili nei negoziati per la pace in Medio Oriente. Un appello sottoscritto da papa Francesco all’Arena di Pace dello scorso maggio a Verona. Chi conosce e sopporta il peso del fallimento senza soccombere merita almeno di essere ascoltato.