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I dazi di Trump fanno tremare le Borse - ANSA
I ragazzi e le ragazze che all’inizio del nuovo millennio protestavano contro l’avanzata della globalizzazione oggi sono uomini e donne di mezza età. Alcuni avranno messo da parte la passione politica degli anni della giovinezza, altri ne avranno conservate le idee, constatandone nel tempo la sconfitta: il commercio internazionale e il neoliberismo che contestavano anche violentemente nelle piazze di Seattle, Praga, Goteborg o Genova hanno stravinto.
Il mondo si è sempre più “globalizzato”: gli spostamenti delle merci, del lavoro, dei capitali e delle idee hanno visto un’incredibile accelerazione. Il movimento no-global prima si è indebolito, quindi si è disperso inseguendo ideali diversi e combattendo nemici nuovi, come il riscaldamento climatico o la grande finanza. Al punto che il significato stesso dell’espressione “no global”, che quasi chiunque comprendeva all’inizio degli anni 2000, oggi non è affatto chiaro a chi ha meno di trent’anni.
E forse è per questo – per il progressivo oblio che il tempo può infliggere anche alle idee – che pochi si stupiscono di assistere all’improvvisa riscossa della lotta alla globalizzazione, capitanata dal più improbabile dei leader: Donald Trump. L’uomo che ha riconquistato la Casa Bianca con il sostegno di molti degli individui più ricchi del mondo e con i voti della working class americana sta demolendo le fondamenta della globalizzazione come nessuno aveva mai nemmeno tentato di fare.
I dazi annunciati il 2 aprile e basati su discutibili calcoli hanno l’effetto concreto di ritirare dal consolidato sistema del commercio internazionale gli Stati Uniti, cioè il super consumatore dei prodotti dell’economia globale, il Paese che da solo fa oltre un quinto dei “consumi finali” del pianeta pur ospitando meno di un ventesimo degli esseri umani.
Frana la globalizzazione e si porta via anche la Wto, l’Organizzazione del Commercio mondiale che Trump aveva già paralizzato nel mandato precedente e che ora è un’istituzione svuotata di senso. “Chiudete la Wto” c’era scritto in varie lingue sugli striscioni dei no-global. Ecco: la stanno chiudendo davvero.
Non è il primo caso in cui in politica gli estremi finiscono per toccarsi. Succede, in particolare, quando nella battaglia delle idee quella che vince non fa prigionieri, e finisce per zittire le altre. Il principio dell’apertura dei mercati internazionali come strada e strumento per la prosperità globale è una di queste idee vincenti e spietate. Proclamata ogni anno da supermanager e governanti riuniti al World Economic Forum di Davos, concretizzata in accordi che hanno facilitato gli scambi tra Paesi lontani, la globalizzazione si è imposta, ha portato a enormi vantaggi a milioni di persone ma è anche riuscita a ridurre al minimo il dibattito sui suoi effetti collaterali negativi. Come la perdita di imprese, posti di lavoro e interi settori industriali che hanno via via traslocato dai Paesi ricchi a quelli poveri in cerca della massimizzazione del profitto. O le indecenti condizioni di lavoro a cui sono sottoposte milioni di persone nei Paesi del Sudest asiatico e dell’Africa trasformati nelle “fabbriche del mondo”. O l’enorme inquinamento del pianeta generato dall’industria manifatturiera spuntata all’improvviso in aree in cui le regole su emissioni e scarichi sono estremamente lassiste. O le spudorate strategie di “ottimizzazione fiscale” che hanno permesso alle multinazionali di pagare tasse infime spostando senza ostacoli nei “paradisi fiscali” i redditi ottenuti in Occidente, privando di risorse agli Stati. O le diseguaglianze che sono emerse tra chi ha saputo salire sul carro dei mercati globalizzati e chi è rimasto a terra.
L’elenco potrebbe essere sterminato. La separazione tra le sorti delle imprese e quelle delle comunità dei territori in cui operano è stato il grande disastro della globalizzazione. È ciò che l’ha resa impopolare e oggi politicamente indifendibile. Adesso Trump interviene con i suoi modi aggressivi e caotici. Sembra privo di una strategia e per questo imprevedibile e pericoloso. Forse, come sperano alcuni, se otterrà qualche “concessione” dai daziati inizierà a fare loro degli sconti. Chissà.
Non doveva esserci bisogno di aspettare il “Liberation Day” per capire che questo assetto dell’economia globale aveva bisogno dei suoi correttivi. Un operaio che lavora non può essere messo in concorrenza con tutto il resto del mondo, la competitività di una nazione non può essere un valore assoluto e l’efficienza non può essere il principio fondante delle politiche di chi governa. Il commercio e gli scambi possono essere una cosa bellissima, ma dipende dagli effetti che hanno sulle vite dei popoli che coinvolgono. In inglese si dice “too much of a good thing”, cioè “una dose eccessiva di una cosa buona”.
Di globalizzazione iperliberista e selvaggia ne abbiamo avuta anche troppa. Adesso è durissima, ma se questo choc ci aiuterà a ridurre i dosaggi, correggere quello che non funziona e disegnare un sistema più equo, potremmo anche uscirne migliori. A patto che non sia solo The Donald a condurre le danze.