La distanza tra Africa e Golfo sembra ridursi sempre più. E la diplomazia somiglia a una tappa, non alla meta, di una partita d’affari più grande. Da qualche anno, la penetrazione geopolitica delle monarchie arabe nel continente africano è una realtà. Con l’influenza americana e occidentale che arretra, Cina e Russia che avanzano. Adesso, i tagli della presidenza Trump agli aiuti allo sviluppo (l’agenzia USaid) aprono ulteriori spazi per Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi.
A marzo sono accaduti due fatti, racchiusi in due fotografie potenti, che restituiscono la nuova normalità dei rapporti Golfo-Africa.
Nella prima foto, il presidente di transizione del Sudan, un generale, prega nella grande moschea di Mecca con il principe ereditario saudita, a chiusura del Ramadan. Il presidente-generale ha appena riconquistato gran parte della capitale Khartoum, dopo due anni di devastante guerra con i paramilitari delle Forze di supporto rapido.
Nella seconda foto, l’emiro del Qatar siede sorridente nel palazzo di Doha, circondato dai presidenti della Repubblica Democratica del Congo (RDC) e del Ruanda. I due leader si combattono indirettamente nella RDC: una coalizione di miliziani (Movimento 23), sostenuta dal confinante Ruanda, si è impadronita dell’est congolese, ricco di giacimenti di cobalto e di altri ambitissimi minerali. I qatarini avevano ricevuto anche una delegazione dei miliziani e ora sono previsti colloqui diretti.
Il Sudan (Corno d’Africa) e la RDC (Africa subsahariana), tra le principali crisi umanitarie mondiali, hanno in comune qualcosa. Nel 2024 gli Stati Uniti sono stati i primi donatori finanziando, rispettivamente, il 44% e il 70% dei progetti umanitari. Questo gennaio è però arrivato lo stop della Casa Bianca, che poi ha cancellato la quasi totalità degli aiuti: persino le esenzioni previste per l’assistenza alimentare subiscono difficoltà e rallentamenti. Così, i presidenti e gli autocrati africani si rivolgono sempre più al Golfo. E distinguere dove finisca la diplomazia e inizino gli affari diventa un rompicapo.
In Sudan, il presidente-generale cerca dai sauditi aiuti economici, forse anche militari, per consolidare l’avanzata. Riad aveva fin qui giocato il ruolo del mediatore (i colloqui di Gedda), di sponda con l’amministrazione Biden. I molti indizi circa il sostegno degli Emirati Arabi ai paramilitari sudanesi avevano avvicinato i sauditi all’esercito di Khartoum: le monarchie competono ancora in numerosi scacchieri geopolitici, seppur in modo meno dirompente di anni fa.
Nella RDC, la diplomazia del Qatar si riprende la scena dopo il tentativo fallito dell’Angola, mediatore dell’Unione Africana. Non è affatto detto che i qatarini ottengano risultati diplomatici, ma intanto Doha è rientrata con forza nella ´partita` congolese. Un teatro in cui gli Emirati Arabi si erano rafforzati come alleati del governo di Kinshasa, mediante accordi per minerali, oro e la costruzione di un porto.
Noi europei faremmo bene a tenere d’occhio tutto ciò. Soprattutto l’Italia, che ha aperto i progetti del Piano Mattei alla cooperazione triangolare con Emirati Arabi e Arabia Saudita.
Il Golfo non riempie soltanto il vuoto americano, ma anche quello dei Paesi europei: vedi la Francia costretta a ritirare i soldati da Sahel e Africa occidentale, dopo l’avanzata delle giunte golpiste pro-russe e del “sovranismo africano”. In Ciad, gli Emirati hanno prestato 1,5 miliardi di dollari alla giunta (pari all’80% del budget statale), la stessa cifra che Abu Dhabi ha staccato per consolidare il debito del Kenya. E non c’era ancora stato il blocco di USaid.
Anche in Africa, il Golfo sceglie di non scegliere tra Usa, Cina e Russia. In Tanzania, gli Emirati hanno una joint venture con cinesi e indiani per un terminal del porto di Dar es-Salaam; nella RDC in guerra, l’Arabia Saudita è pronta a entrare nell’accordo minerario anti-cinese che Washington sta negoziando con Kinshasa. Se la diplomazia africana diventa soltanto una questione d’affari, gli europei avranno ancora meno chances di stare al tavolo.

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