Caro direttore,
«L’Europa avanza!», è stato il commento di Ursula von der Leyen al termine del Consiglio europeo dei giorni scorsi. Sono frasi che danno conto del superamento di una grande preoccupazione. La posta in gioco era decisiva perché – come 'Avvenire' ha scritto più volte – il Recovery Fund e le altre misure che completano il progetto Next Generation Eu costituiscono un salto di qualità dell’Unione, un cambiamento di natura che ne garantisce la sopravvivenza e può avere grandi sviluppi.
L’Europa, facendo proprie le necessità degli Stati membri e delle loro popolazioni derivanti dalla crisi sanitaria ed economica, supera il limite originario fondato solo sulla creazione del mercato comune e appare non più come il 'gendarme delle regole', ma come la sede che può risolvere i nostri problemi: quelli che da soli non saremmo in grado di risolvere. L’esercizio del potere di veto sull’approvazione del bilancio, ventilato da Polonia e Ungheria, avrebbe impedito al progetto di prendere vita, ma anche questa prospettiva nefasta è stata fugata. Mentre si tira un respiro di sollievo, non ci si può esimere, però, dal fare alcune, serie, considerazioni.
L’ordinamento dell’Unione può andare avanti così, avendo sempre la spada di Damocle di quel potere di veto che l’Inghilterra, prima di andarsene, ci ha lasciato in eredità? No di certo, anche perché, ormai lo si è visto, questo potere viene spesso usato con modalità assai discutibili. Bisogna, allora, avviare riforme che conducano l’Europa verso la forma di Stato federale. E qui va fatta una scelta che, prima ancora che di contenuti, è di metodo. Chi raccoglie i progetti di riforma elaborati da gruppi di studiosi e anche da sedi istituzionali, ne ha ormai riempito un buon numero di scaffali. È molto difficile che una riforma venga approvata da tutti i Paesi membri e ratificata dai loro Parlamenti. Gli interessi contrari sono ancora troppo forti. Il modo di procedere deve essere quindi quello delle acquisizioni puntuali e progressive. Del resto aveva avvertito fin dall’inizio Robert Schuman era chiaro che l’Unione Europea si doveva formare per gradi. Le occasioni e le possibilità non mancano, proprio per le stesse ragioni che rendono necessaria l’Europa unita.
Si matura di volta in volta la consapevolezza che i singoli Stati non sono in grado di risolvere i problemi più gravi delle loro popolazioni. Ora lo si constata per la crisi sanitaria ed economica, Ma è così anche per i problemi del clima, dell’immigrazione, della difesa armata (ce lo ha spiegato l’intervento turco in Libia). Altro punto essenziale: non si può pretendere che tutti i Paesi europei marcino con la stessa velocità, ma non si può ammettere che l’Unione marci con la velocità dell’ultimo vagone. Né, del resto, è bene cacciare dall’Unione i più lenti, che verrebbero assorbiti da altre zone di influenza. Di qui la formula di una Europa a cerchi concentrici, da realizzarsi man mano che si affrontano singole questioni.
La formula circola sempre più frequentemente. Vi ha fatto riferimento anche 'Avvenire' nell’editoriale di Andrea Lavazza dell’11 dicembre. E va spiegato, anzitutto, che non si tratta di una formula inedita. Al contrario è quella già in atto nell’Eurozona, per effetto delle decisioni che sono state via via adottate. Il quadro complessivo che ne emerge è quello di una pluralità di sistemi che uniscono da 17 Paesi, che condividono tutti gli accordi, fino ad altri che uniscono 24, 26 o tutti e 27 gli Stati che aderiscono o meno all’euro, al patto di stabilità, all’accordo sulla libera circolazione o a quelli adottati con grande fantasia, come l’istituzione del fondo di diritto lussemburghese, creato per dar corpo al Piano Juncker di politica economica e attratto nella giurisdizione della Corte di giustizia europea con un vero e proprio virtuosismo istituzionale. Si sta creando così un nucleo forte e stabile, che dovrebbe prendere nel tempo più consistenza, superando anche la diarchia franco-tedesca.
Se ci si prefigura questo modello, la politica dei singoli passi successivi può perdere il carattere occasionale e puntiforme che ancora la caratterizza e può portare, nel giro di pochi anni, a un risultato organico, con tutte le grandi implicazioni utili all’intera umanità evocate dal Messaggio di speranza e unità di papa Francesco al Parlamento europeo del 23 novembre 2014 e dal discorso di insediamento di Ursula von der Leyen. La successiva approvazione di un nuovo Trattato che ne tragga anche le conseguenze istituzionali (o meglio di più Trattati, per ogni singola fascia) non sarebbe difficile perché ratificherebbe una realtà già in essere.
Giurista, professore emerito nell’Università di Roma Tre