sabato 5 aprile 2025
Pechino ha subito risposto alla mossa di Trump. Tra Usa e Cina le frizioni continuano ad aumentare in modo preoccupante
Trump e Xi Jinping

Trump e Xi Jinping - ANSA

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All’aumento dei dazi americani sui prodotti cinesi – il 34% che si somma a quelli precedenti, per un totale del 54% – Pechino ha subito risposto con pari aumento del 34% dei dazi cinesi sulle merci americane e ha fatto ricorso al Wto. Non si cede al «bullismo commerciale», come l’ha definito il ministro degli Esteri, Wang Yi. Ma siamo solo alle battute iniziali. C’è chi pensa che la guerra dei dazi dichiarata da Trump al resto del mondo potrebbe concludersi con un grande scontro – solo commerciale? – tra Usa e Cina. ​Per Pechino si apre un’alternativa simile a quella davanti a cui si trova oggi l’Europa: piegarsi al nuovo “disordine mondiale” e seguirne le regole oppure resistergli, con gli opportuni adattamenti? Niente potrà più essere come prima, ma Pechino vuole contrastare il protezionismo e difendere una globalizzazione decisamente favorevole agli interessi cinesi. Anche perché, involontariamente, la politica trumpiana apre spazi e crea occasioni che la Cina è decisa a utilizzare.

Per il ministero del Commercio cinese «non ci sono vincitori in una guerra commerciale e il protezionismo non porta da nessuna parte»: Washington dovrebbe «risolvere le divergenze con i partner commerciali attraverso il dialogo». Pechino ha anticipato Trump dichiarandosi disponibile «a collaborare con l’Unione europea per resistere al protezionismo» e al Boao Forum di Hainan – la Davos cinese – Xi Jinping ha incontrato personalmente i rappresentanti di importanti multinazionali straniere, affermando che «l’unilateralismo e il protezionismo si stanno intensificando, ma la Cina aprirà sempre di più le sue porte». L’obiettivo è attirare gli investimenti esteri (in calo da anni) e favorire pressioni anti-dazi delle imprese straniere presso i loro governi. La Cina sta persino riuscendo a stringere rapporti di libero scambio con Giappone e Corea del Sud, alleati politico-militari degli Stati Uniti. Anche questi tre Paesi – uniti pure dalla comune preoccupazione per l’abbraccio tra Putin e Kim Jong Un e per la simpatia mostrata da Trump nel suo primo mandato verso il dittatore nord-coreano – sono stati pesantemente colpiti dai dazi americani vissuti, come in Cambogia, Vietnam e Taiwan, quale “tradimento” da parte americana. Gli Stati Uniti, insomma, stanno inseguendo il modello cinese degli anni passati: intervento dello Stato, tariffe doganali ecc.? E mentre Trump sta trattando gli amici come fossero nemici, ha scritto Lorenzo Lamperti, la Cina prova a farsi amici quelli che ha trattato abitualmente come nemici?

Anche su terreni diversi da quello commerciale, le tensioni tra Stati Uniti e Cina stanno crescendo in modo inquietante. Durante le “Due sessioni” del Parlamento cinese all’inizio di marzo, Wang Yi si è chiesto se «la giustizia prevale sulla forza o la forza fa la giustizia?», aggiungendo: «Se tutti agissero prevaricando l’altro saremmo governati dalla legge della giungla». E ha concluso: «Daremo certezza a un mondo incerto». Anche sul piano politico, infatti, è nell’interesse di Pechino evitare sviluppi pericolosi. Chiudere la guerra in Ucraina favorendo Putin, ad esempio, potrebbe servire a Trump per staccare la Russia dalla Cina, in una logica triangolare simile a quella realizzata da Kissinger e Nixon negli anni ‘70, ma a parti inverse: questa volta Washington sta dalla parte di Mosca. È perciò interesse cinese che questa guerra non finisca con un baratto russo-americano, sulla pelle di Kiev e tagliando fuori tutti gli altri. La diplomazia di Pechino ha negato di voler partecipare all’iniziativa dei “volenterosi” europei guidata da Francia e Gran Bretagna, ma potrebbe entrare in gioco dopo un cessate il fuoco, offrendosi di favorire forze di peacekeeping e di contribuire alla ricostruzione post-bellica. La situazione è ancora più preoccupante per quanto riguarda l’Indo-pacifico.

Nel suo recente viaggio in Asia, il capo del Pentagono, Pete Hegset, ha annunciato il rafforzamento di legami militari con gli alleati asiatici – contrariamente a quanto avviene con l’Europa – per contrastare la Cina. In un documento interno del Ministero della Difesa americano si afferma che «la Cina è l’unica minaccia per gli Usa» e che opporsi a «una presa di Taiwan da parte della Cina – senza compromettere la difesa del territorio statunitense – è l’unico scenario plausibile» per gli Stati Uniti. Ma, paradossalmente, l’ipotesi che si vada verso un grande scontro tra Usa e Cina potrebbe accelerare i piani di Pechino per la “riunificazione” con Taiwan. Le manovre militari dei giorni scorsi intorno all’isola sono state lette anche in questa chiave, oltre che come risposta alla politica indipendentista del nuovo presidente Lai Ching-te. Se Trump sta cercando di sbarazzarsi di fastidiose questioni “secondarie”, come la guerra in Ucraina, per potersi poi concentrare contro la Cina, quest’ultima potrebbe essere tentata di chiudere la questione Taiwan prima di un grande scontro con gli Stati Uniti. Il terremoto Trump, come si vede, ha effetti destabilizzanti in molte direzioni. Negli ultimi giorni a Pechino si sono avvicendati molti politici europei, ma il loro andare in ordine sparso mostra una consapevolezza ancora insufficiente delle sfide che oggi si pongono all’Europa tutta insieme. Trump mette infatti tutti davanti alla distruzione dell’ordine internazionale liberale basato su regole e istituzioni multilaterali per aprire la strada ad un multipolarismo iperconflittuale. Sia la Cina sia l’Europa invece – seppure per motivi diversi – non sono interessate a un mondo senza regole. Il confronto con la Cina è perciò essenziale per un’Europa obbligata ad agire in modo sempre più unitario mentre è in gioco la ridefinizione degli assetti mondiali.

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