sabato 5 aprile 2025
La sentenza di Brescia ci aiuta a ricordare che la velocità del cambiamento sociale e in rete non è una scusante per venir meno al dovere umano che ci contraddistingue: educare
I simboli dei social network sullo schermo di uno smartphone

I simboli dei social network sullo schermo di uno smartphone - ImagoEconomica

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Delegare si può, anzi, si deve. Lasciare che i figli esplorino il mondo è un modo sano per essere genitori, ma non sempre. E non in ogni circostanza. Con la sentenza n.879 del 4 marzo il Tribunale di Brescia ha ricordato ai genitori che i figli, specie se minorenni, oggi crescono non tra le nuvole ma nel cloud e in reti vischiose. Monitorarli, dunque, non è una facoltà ma un dovere. Anche – e soprattutto – quando sono fragili o legittimamente immaturi.

Non basta, insomma, strappare loro la password con una carezza o giustificarsi, da genitori smarriti, con l’alfabetizzazione digitale che non fu impartita ai tempi della macchina da scrivere e del Commodore 64. I ragazzi, si sa, hanno più fantasia che senso del limite, e in un attimo passano dal profilo ufficiale a quello “farlocco”, creato ad arte per eludere mamma e papà. Il che, secondo il Tribunale, non solleva i genitori, ma li condanna: al dovere di esserci. Sempre.

Il caso che farà giurisprudenza riguarda una famiglia condannata a risarcire 15mila euro per i danni provocati dalla figlia, affetta da un lieve ritardo intellettivo. La ragazza, lasciata sola in un territorio dove anche gli adulti si perdono, aveva messo in piedi una campagna d’odio: profili falsi, insulti e immagini pornografiche ritoccate contro una compagna di classe. Una forma di vendetta digitale partorita all’ombra del wi-fi domestico. Ma la rete non è una tana sicura. E la legge – l’articolo 2048 del Codice civile – non fa sconti: si chiama culpa in educando, ed è il principio che continua a obbligare i genitori a educare e vigilare. Se falliscono, pagano.

Il caso bresciano ci aiuta a ricordare che la velocità del cambiamento sociale e sui social non è una scusante per venir meno al dovere umano che ci contraddistingue. La trasformazione digitale tocca chiunque e il digitale è sempre più l’ambiente in cui tutti ci muoviamo. Comprenderne le dinamiche, prima ancora che il funzionamento, è imperativo per stare al mondo e soprattutto per mettere al mondo un altro essere umano. Con la computerizzazione della società, che oggi significa l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa e la diffusione capillare dello smartphone, l’educazione affronta nuovi temi, sfide e necessità. Educazione significa oggi essere noi adulti educati a qualche cosa che non abbiamo conosciuto al tempo della nostra prima educazione, educare altri che alla vita si affacciano e – novità assoluta – educare le macchine che ci circondano a essere conformi ai valori su cui fondiamo la nostra esistenza. Se un tempo abbiamo demandato l’educazione, anche troppo, a soggetti terzi (scuola, università, partito, enti intermedi, sino alla televisione e poi a internet) oggi è quanto mai necessario riappropriarsi di questo dovere. Che è certamente faticoso, ma anche generoso, sfidante nel senso più positivo del termine.

Costruiamo macchine per toglierci fatiche, ma ci sono fatiche che a ben guardare sono il campo di atterraggio dei nostri desideri più belli. Educare i figli, in dialogo con loro, rispetto ai nuovi mondi che si affacciano, senza la presunzione di sapere e senza l’ansia di sapere tutto, non deve essere necessariamente un fardello da “terziarizzare” ma una specificità che allarga il cuore. Abbiamo gioito tutti dei primi traguardi dei nostri figli e nipoti, esultando per le prime balbettate parole, per i primi incerti passi. Perché non dovrebbe essere altrettanto appagante gattonare sui social, balbettare su un prompt ed essere orgogliosi come fummo della prima corsa, della prima frase compiuta, della prima battuta di spirito? La vulgata che l’educazione è faticosa e impervia non può essere oggi sfatata? Non per mandato del tribunale, ma per desiderio di vita: quello stesso che ci ha fatto gioire per la prima volta davanti alla loro culla.

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