Migranti, detenzione, rimpatri: quanta leggerezza sui diritti
venerdì 11 aprile 2025

I rimpatri sono il tallone d’Achille delle politiche di contrasto dell’immigrazione irregolare: nell’UE nel 2024 soltanto il 30% dei migranti colpiti da un ordine di espulsione, a loro volta una modesta frazione dell’immigrazione indesiderata, sono stati effettivamente rimpatriati. Nel nuovo Patto sull’Immigrazione e l’Asilo (bozza del settembre 2023) il termine “ritorni” era citato 93 volte: un’autentica ossessione per i decisori europei. Ancora più magri i risultati italiani: 4.304 rimpatriati nel 2022, 4.751 nel 2023, circa la metà verso un solo Paese, la Tunisia. Anche tra i 6.665 trattenuti nei Cpr nel 2023 soltanto il 47% (3.134) è stato realmente espulso.

Si spiega così la recente proposta della Commissione Ue per la riforma della Direttiva del 2008 sui rimpatri, che introduce la possibilità di allestire centri di detenzione per gli immigrati da rimpatriare (definiti “return hubs”) in Paesi terzi. Scelti in base a due criteri: o perché i migranti abbiano qualche relazione con quei Paesi, oppure perché si tratta di Paesi che hanno sottoscritto accordi con l’Ue e sono stati definiti “sicuri”. Una sorta di progetto Guantanamo all’europea. La base di Guantanamo però è sotto il controllo statunitense, qui invece si discute di Stati sovrani. Sorge dunque il problema della tutela dei diritti fondamentali e del rispetto del principio di non-refoulement, che vieta di trasferire delle persone in Paesi dove potrebbero subire violenze o trattamenti degradanti. Non che l’Ue e i governi europei siano andati molto per il sottile nel recente passato, quando hanno ingaggiato le autorità turche, libiche, marocchine o tunisine per trattenere i profughi in transito, anche quando provenivano da Paesi in guerra come la Siria.

Qui però si prevede di allontanarsi di un altro grande passo dalla difesa dei diritti umani basilari, consegnando delle persone soggiornanti nell’Ue, magari da anni, alle autorità di Stati esterni. Non si vede come si potrà poi controllare il loro operato, una volta che l’Ue li avrà pregati di gestire per suo conto la spinosa partita della detenzione e dell’eventuale rimpatrio dei migranti sgraditi. L’esempio libico dovrebbe suonare da monito. Enormi poi i costi, se si vuole andare al di là di azioni meramente dimostrative.

Nel frattempo, il governo italiano ha annunciato la trasformazione di uno dei due costosi centri allestiti in Albania in Cpr. Una decisione che sembra anticipare il nuovo (eventuale) corso europeo. Ma il progetto italiano, anche ammettendo di superare lo sgarbo della modifica unilaterale di un accordo internazionale con l’Albania, non si allinea con Bruxelles.

L’Italia mantiene infatti la giurisdizione sui centri realizzati sul territorio albanese, senza delegarne la gestione alle autorità locali, e senza che l’Albania sia definita come un Paese terzo di destinazione degli immigrati espulsi. Pertanto dall’Albania non sono previsti dei rimpatri. In caso di accordi con i Paesi di provenienza, i malcapitati dovrebbero essere riportati in Italia, titolare degli accordi, per essere poi rimandati nel loro Paese. Non si comprende poi che ne sarà di coloro che, al termine della detenzione, anche allungata a 24 mesi come prevede la nuova bozza europea, non saranno stati rimpatriati e dovranno essere liberati. Difficile immaginare che se ne facciano carico le autorità albanesi, che già si erano rifiutate di farlo nella precedente versione dell’accordo.

La gestione dell’immigrazione irregolare è una questione spinosa, ma esistono altri strumenti per affrontarla: ritorni volontari assistiti, regolarizzazioni mirate al lavoro, sponsorizzazioni da parte di soggetti affidabili. Non servono invece misure che, pur di illudere l’opinione pubblica di aver trovato la soluzione, si accingono a consentire la violazione dei diritti umani, aggravano i costi per l’erario, rendono i governi europei più ricattabili da parte dei partner esterni, e probabilmente neppure otterranno i risultati auspicati.

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