mercoledì 16 aprile 2025
Davanti alla sfida trumpiana l’Europa sta dimostrando una coesione superiore alle aspettative. È la storia a spingerla verso l’unità, malgrado la palla al piede dei nazionalismi-sovranismi
Trump con Meloni nell'incontro del 4 gennaio 2025

Trump con Meloni nell'incontro del 4 gennaio 2025 - Ansa

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Il primo round della politica trumpiana si è concluso con una vittoria dell’Unione Europea. Piccola e provvisoria, ma significativa. Sui dazi, Trump tratterà con la Ue tutta insieme, non con i singoli Stati. La decisione viene dopo che il presidente americano ha manifestato apertamente la sua ostilità verso l’Europa unita, che sarebbe nata – ma non è vero – per “fregare” gli Usa, e dopo che il suo vicepresidente, Vance, ha definito gli europei parassiti e antidemocratici (mentre negli Usa i giornalisti scomodi vengono cacciati dalla Casa Bianca, alle università non allineate si tagliano i fondi, i giudici sono delegittimati ed è in corso una sorta di epurazione di dipendenti o di interi apparati pubblici).

Trump, infatti, ha scoperto di aver bisogno degli europei, che hanno sottoscritto – giusto prima del rinvio dei dazi – i Titoli di Stato necessari a finanziare l’enorme debito pubblico Usa, mentre gli stessi americani, oltre ai cinesi, si tenevano a distanza.

In questo mutato contesto si inseriscono anche i prossimi incontri tra la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e Trump, a Washington, e quelli tra Vance e altri leader politici, a Roma. La svolta rende meno probabili intese basate sull’“affinità ideologica”. Il trumpismo come sponda per una svolta italiana in senso autoritario? Come ha detto Barak Obama, il suo successore sta infrangendo «il principio base della democrazia americana, incarnato dalla nostra Costituzione e dal Bill of Rights»: il principio «che tutti noi contiamo, tutti noi abbiamo dignità, tutti noi abbiamo valore».

E proprio in questi giorni stanno crescendo in Italia proteste sempre più accese contro il decreto-legge sicurezza, da molti percepito come un inaccettabile superamento della soglia che separa democrazia e antidemocrazia. Ma sarebbe sbagliato dare per scontato che Trump vincerà la sua guerra alla Costituzione americana. Il presidente è infatti in calo di consensi: dal 48% al 43% di valutazioni positive e il 51% dei suoi elettori che ne giudicano negativamente le scelte.

Trump proseguirà per la sua strada, ma resterà una sensazione di inaffidabilità della sua politica. Diversamente da quando prevalgono le regole democratiche, il populismo permette ai suoi leader di non rendere conto ai cittadini delle loro scelte, se non nel momento elettorale; ma non li protegge dall’ira dei consumatori. Anche la speranza italiana di negoziare a nome dell’Europa si è indebolita.

L’ipotesi di un grande mercato euro-americano, a zero dazi, viene trattata in questi giorni dal Commissario UE al Commercio, Maros Sefcovic, cui spetta rappresentare in questo campo tutti i Paesi europei. Incerta appare anche la possibilità di far leva su una forte politica anticinese. Indubbiamente Trump ha nascosto la sua ritirata sui dazi dietro uno stratosferico 145 % sui prodotti cinesi e può darsi che l’incontro italo-americano si concluda con dichiarazioni anti-Pechino. Ma il primo a contraddirle potrebbe essere proprio lo stesso presidente americano, come ha fatto esentando (temporaneamente) dai dazi gli iPhone prodotti in Cina. Non gioca, infatti, solo la sua imprevedibilità, ma soprattutto la rilevanza ormai assunta per gli Stati Uniti da un groviglio di legami e di conflitti con Pechino, i cui inizi risalgono all’apertura di Nixon alla Cina negli anni Settanta e che il pivot-to-Asia di Obama ha confermato. È la crescente importanza della sponda asiatica ad allontanare gli Stati Uniti dal legame atlantico che li ha uniti all’Europa fin dalla loro nascita.

C’è poi chi dice che l’Italia potrebbe offrire a Trump un appoggio a smantellare il Digital Services Act dell’UE o a impedire una web tax europea sui profitti delle Big Tech americane. In realtà, l’Italia può svolgere un ruolo veramente rilevante solo contribuendo a far capire a Washington il punto di vista europeo. Come spesso avviene nei momenti di crisi – Covid, Ucraina ecc. – anche davanti alla sfida trumpiana l’Europa sta dimostrando una coesione superiore alle aspettative. È la storia, infatti, a spingerla verso l’unità, malgrado la palla al piede dei nazionalismi- sovranismi che periodicamente ne ostacolano il percorso. Oggi, poi, la sollecitano ancor di più all’unità proprio le vistose oscillazioni della politica americana e, soprattutto, una situazione internazionale molto instabile e in cui pesano in modo decisivo le scelte di grandi entità politico-economiche come Stati Uniti e Cina. In tale contesto l’Europa non può non muoversi tutta insieme.

C’è chi dice che il Vecchio continente non potrà mai essere unito perché non esiste un unico popolo europeo e lo Stato nazionale sarebbe l’unico ambito in cui finora hanno trovato forma la democrazia politica e il suffragio universale. Forse però qualcuno dimentica che il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale e il suo peso politico- istituzionale è in crescita; mentre gran parte dell’attività dei parlamenti nazionali è oggi impegnata nella ratifica di normative europee. Insomma, ormai l’Italia è largamente in Europa e viceversa. Fa inoltre riflettere che le politiche nazionali siano sempre più spesso afflitte da cortocircuiti populisti mentre le istituzioni europee ne sono esenti.

Tutti motivi interni che spingono per un’unità sollecitata anche dal nuovo disordine mondiale. Cui si aggiunge anche, come spiegava Jacques Delors e come ha dimostrato recentemente Mario Draghi, che la non-Europa – e cioè tutto ciò che frena l’unità europea – ha un costo anche economico molto elevato. Insomma, da parte dell’Italia qualunque scelta diversa dal sostegno all’Europa sarebbe contraria all’interesse nazionale italiano.

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