
Rajesh Mohur, il domestico della famiglia Acutis, nella cameretta di Carlo Acutis a Milano - .
Rajesh Mohur, 64 anni, parla sempre al presente di Carlo Acutis (il ragazzo morto nel 2006 all’età di 15 anni per una leucemia fulminante, che il prossimo 27 aprile sarà proclamato santo a Roma). Quando gli viene chiesto di lui, sfoggia un largo sorriso e ripete di essergli «grato». È stato Carlo, che all’epoca aveva solo quattro anni, a chiedere alla sua famiglia nel 1995 di dare un lavoro a Mohur, originario della repubblica di Mauritius, come collaboratore domestico. «Ero arrivato in Italia da cinque anni e lavoravo al Sud come maggiordomo – racconta ad Avvenire –. Appena sono salito a Milano, ho fatto un colloquio dagli Acutis. Ho suonato alla porta e ho visto Carlo, che mi è corso incontro come se mi conoscesse da anni. Mi ha preso per mano e mi ha accompagnato in camera sua a farmi vedere i giocattoli. Ai parenti ha chiesto subito di farmi rimanere con loro». E così è stato.
Mohur abita ancora in quella casa milanese dove ha vissuto con Carlo per undici anni: adesso se ne prende cura mentre la famiglia vive altrove. Ma, quando entra nella cameretta del beato, «dove tutto è rimasto come era», gli si rompe la voce: «Mi chiamava spesso qua per giocare o per pregare insieme», racconta di fronte a una lunga scrivania in legno su cui Acutis «studiava e programmava al computer».

La cameretta di Carlo Acutis, conservata oggi intatta come al momento della morte del giovane santo milanese - .
Carlo «mi ha insegnato molto». Dai racconti, si direbbe che Rajesh Mohur è la persona che ha forse condiviso più tempo di tutte con Carlo Acutis: lo accompagnava ogni mattina a scuola, lo attendeva all’uscita e trascorrevano insieme ogni pomeriggio in casa mentre i genitori erano fuori per lavoro. Il suo ricordo di quelle giornate è lucido: «Tutti i giorni – racconta – Carlo si fermava in chiesa per pregare, prima di arrivare a scuola, e ogni mattina andava a Messa. Nel pomeriggio studiava tanto, amava guardare film e leggeva molto anche sulla Bibbia. Poi, mi chiamava sempre in camera per raccontarmi tutto». Inizialmente Mohur, indù dalla nascita, era straniato. Suo padre era un sacerdote che lo aveva cresciuto secondo i canoni tradizionali della casta dei bramini: «Seguivo tutte le preghiere, ho imparato il sanscrito e mi sono trasferito in India per gli studi avanzati. Ho fatto anche il bagno nel fiume Gange, ma all’epoca ero infastidito perché vedevo molti pregare ignorando le persone povere». Così, dopo la morte repentina del padre, Mohur ha scelto di trasferirsi in Italia e per anni ha vissuto lontano dal culto hindu.
Oggi si professa cristiano, ma la conversione – assicura – è stato un fatto quotidiano: «È merito di Carlo. Ogni mattina, andando a scuola, mi ripeteva che sarei stato più felice partecipando alla Messa, perché sarei entrato in comunione con il Signore. Alla fine, ho provato ed è stato davvero così». Nel 1999 Mohur ha ricevuto il battesimo, avendo come padrino e madrina i genitori di Carlo, e ora è sposato con una donna incontrata durante una celebrazione in commemorazione di Acutis. «Anche per questo gli sono grato».
È proprio nelle numerose passeggiate con quel ragazzo – confessa – che Mohur ha imparato molto sulla fede: «Ricordo che una volta, fuori dalla chiesa, vide un povero di nome Matteo e non voleva entrare a scuola pur di aiutarlo subito. Alla sera gli portammo un sacco a pelo, ma sul momento mi stupì moltissimo». Altre volte, invece, gli insegnamenti di Carlo erano più espliciti: «C’è una frase che gli viene attribuita, “tutti nascono originali ma molti muoiono fotocopie” – racconta sorridendo –. Era riferita a me, me la disse quando iniziai a vestirmi come un attore di Bollywood a cui assomigliavo. Da allora ho imparato a essere contento di me stesso».
Andrea Ceredani
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