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Aree grigie e zone d’ombra. Ma anche processi e impianti produttivi non corretti, provenienze delle materie prime dubbie quando non illecite, controlli distratti e superficiali. Nonostante vi siano regole, protocolli, capitolati e certificazioni non tutto l’agroalimentare nazionale brilla in trasparenza.
Non si tratta solo di malaffare criminale, ma di negligenze e colpevoli leggerezze. Diciamolo subito: il vero agroalimentare italiano è tutt’altra cosa. Eppure l’episodio dell’Agro Pontino – seppur gravissimo, con un immigrato lasciato morire dopo aver subito l'amputazione di un braccio – non è il primo. Così come non isolati sono i ritrovamenti di alimenti fuori norma, i casi di racket e gli episodi criminali nei mercati e nei campi. Stando alle numerose rilevazioni, il giro d’affari delle cosiddette agromafie supera i 20 miliardi di euro e spazia dall’abigeato al controllo degli appalti di forniture alimentari attraverso tutti gli strumenti possibili dell’estorsione e dell’intimidazione. Ambiti nei quali il caporalato ha un ruolo di primo piano insieme allo sfruttamento dei lavoratori anche regolarmente presenti in Italia (come proprio Avvenire ha rivelato). «La malavita comprende la strategicità del settore in tempo di crisi economica», dice Coldiretti che, con le altre organizzazioni agricole, chiede controlli severi su tutto l’agroalimentare. Che pure ci sono (solo quelli riportati dall’ultimo rapporto dell’Ispettorato Centrale della Tutela della Qualità e Repressione Frodi arrivano a 54.615). Senza dire di quanto viene fatto dai Carabinieri e dalle altre forze dell’ordine. Eppure tutto questo non basta.
Perché le imprese agricole che lavorano male, che sfruttano la manodopera e riescono comunque a vendere e prosperare, queste imprese continuano ad esserci e hanno mercato, agevolate anche dalla struttura della stessa filiera agroalimentare: troppi produttori spesso troppo piccoli che stentano ad arrivare direttamente ai mercati che contano e che devono affidarsi ad intermediari di ogni genere. Una condizione che vale per tutto lo Stivale agricolo. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto Flai-Cgil, l’Agro pontino e la provincia di Latina sono tra le aree dove lo sfruttamento dei braccianti è più radicato, ma ci sono anche Caserta e Napoli, la Capitanata, le campagne piemontesi, quelle siciliane, il Fucino abruzzese, il Veneto. Delle 405 aree di caporalato diffuso oltre la metà è al Nord. Perché sfruttare e dare lavoro in nero “conviene” soprattutto adesso, con i costi delle materie prime che salgono e i margini che scendono.
Gli sforzi per fare pulizia però ci sono. «Ogni anno nei grandi mercati italiani avvengono centinaia di controlli sia da parte del personale ispettivo dei mercati stessi che in raccordo con le autorità preposte (NAS, Forestali, autorità sanitarie ecc). I controlli riguardano il rispetto delle norme, sulla tracciabilità sui residui, sul rispetto delle norme di commercializzazione», dice Fabio Massimo Pallottini, presidente di Italmercati, una rete che riunisce i 22 principali mercati all’ingrosso nazionali, e che ha adottato «un codice etico che contrasta il caporalato». Il fatto è che, stando ad un’indagine Ismea-Italmercati, in Italia oggi ci sono 137 strutture (sei volte di più che in Spagna e Francia) da cui passa circa il 50% dell’offerta ortofrutticola, il 33% di quella ittica e il 10% delle carni. Si tratta molto spesso di mercati piccoli, a rilievo locale. I clienti prevalentemente sono i negozi al dettaglio. Quella dei mercati all’ingrosso è quindi una realtà frammentata. Troppo. Da qui, è il parere di Italmercati, la necessità di mettere mano ad una riforma profonda con due parole d’ordine: accorpamento ed efficienza. «Si deve – dice Italmercati – individuare un numero, magari ridotto, di mercati strategici che garantiscano un sistema più efficace ed efficiente, non tralasciando i principali requisiti alla base di queste strutture: garantire ai consumatori servizi di tracciabilità e sicurezza alimentare».
Una posizione simile a quella adottata da Federdistribuzione il cui presidente, Carlo Alberto Buttarelli, sottolinea: «C’è sicuramente un tema di normative che, pur essendoci, devono essere applicate meglio e con più attenzione; ma c’è anche una questione di cultura e di autocontrollo da parte di tutta la filiera alimentare». Le imprese della distribuzione moderna hanno sottoscritto nel 2017 un protocollo per contrastare il caporalato e per eliminare le aste a doppio ribasso che generano una sorta di compressione dei costi agricoli. «Ai nostri fornitori – dice Buttarelli – chiediamo l’adesione alla “Rete del lavoro agricolo di qualità”’ oppure di assumere la certificazione Grasp (Risk Assessment on Social Practice, cioè Controllo dei Rischi nelle Pratiche Sociali, ndr) che è specifica per la tutela dei lavoratori». Ancora Buttarelli precisa: «La produzione agricola è caratterizzata da molte imprese troppo piccole che finiscono per essere preda di grossisti e intermediari senza scrupoli».
Trasparenza, dunque. Eppure tutto questo non basta ancora. Ieri, il segretario generale della Fai-Cisl nazionale, Onofrio Rota, ha insistito: «Se davvero vogliamo dichiarare guerra al caporalato dobbiamo partire da una politica dei prezzi più giusta ma soprattutto da una efficace emersione di chi diventa irregolare: chi vuole lavorare e non ha commesso reati non può rimanere nel limbo allo scadere del contratto, parliamo di persone cui dobbiamo riconoscere dignità».