giovedì 3 aprile 2025
Il ddl presentato dal governo l'8 marzo è solo un primo passo. Le tragedie di questi giorni dimostrano che inasprire le pene non ha per forza un effetto deterrente e che serve una svolta culturale
L'omaggio a Ilaria Sula, uccisa a Roma, da parte della facoltà di Statistica della Sapienza, l'ateneo in cui la ragazza studiava

L'omaggio a Ilaria Sula, uccisa a Roma, da parte della facoltà di Statistica della Sapienza, l'ateneo in cui la ragazza studiava - Matteo Nardone/ipa-agency.net

COMMENTA E CONDIVIDI

Ci risiamo, dunque. Due giovani donne uccise nello spazio di poche ore. Due uomini che non riuscivano a tollerarne la libertà, le scelte, l’indipendenza. E la sensazione di avere le armi spuntate, di non essere riusciti a costruire percorsi educativi sufficienti a un mutamento culturale. È in questo solco, guarda caso, che è stata annunciata lo scorso 8 marzo l’intenzione di istituire il nuovo reato di femminicidio. Uno «spot per la Festa della donna» o «una svolta epocale»? Un «annuncio roboante» o un tentativo di produrre quel cambiamento? Le reazioni al disegno di legge presentato dal governo continuano ad essere agli antipodi ed è necessario metterle a tema oggi, purtroppo alla prova drammatica dei fatti.
Comprensibilmente entusiasti e convinti che possa cambiare le cose sono gli esponenti della maggioranza, con la premier che a suo tempo aveva parlato di «sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga» e la ministra della Famiglia Eugenia Roccella che lo aveva presentato come «un passo necessario». Dall’opposizione alcune voci si erano levate invece contro la deriva «securitaria» del governo: introdurre nuove fattispecie di reato – era la critica – serve forse a ottenere il consenso popolare ma non incide su un auspicabile cambiamento di rotta.
In realtà però anche a sinistra, numerose tra le esponenti più impegnate sul tema della violenza alle donne avevano promosso il ddl: «Il nuovo reato aiuterà a distinguere la matrice del delitto. Sul fronte del femminicidio e delle molestie sessuali gli interventi sul Codice servono. È cultura giuridica che fa cultura diffusa» aveva commentato ad esempio la senatrice Pd Valeria Valente, già presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio.
Anche tra i giuristi le opinioni erano state discordanti. Per un’avvocata rispettata e autorevole come Paola Di Nicola Travaglini, che considera il ddl «epocale, perché simbolicamente cambia la prospettiva culturale», c’è il durissimo parere negativo dell’Unione delle Camere penali: il ddl «è una novella legislativa volta a soddisfare le grida di manzoniana memoria (…) e a raccogliere facile consenso».


Cosa prevede il ddl
L’articolo 577 bis che si vuole introdurre nel Codice penale riconosce il femminicidio come reato autonomo - e non più come aggravante come è oggi - punibile con il carcere a vita. «Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna per reprimere l’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo». L’articolo, che dovrebbe essere il punto di partenza di un Testo Unico contro la violenza sulle donne, contiene anche altri interventi normativi, che specificano e rafforzano alcune norme del Codice rosso: aumento delle pene fino al 50 per cento per i maltrattamenti in famiglia, l’uso di armi o sostanze corrosive e l’interruzione di gravidanza non consensuale, e fino a due terzi per stalking e revenge porn. Le altre novità di rilievo riguardano la vittima, che potrà chiedere di essere ascoltata direttamente dal magistrato anziché dalla polizia giudiziaria, e i magistrati, per i quali è prevista una formazione obbligatoria.


Populismo giudiziario?
Molti critici hanno sottolineato che già ora chi uccide la propria compagna - per le ex il discorso è leggermente diverso - può essere condannato all’ergastolo, con le aggravanti del caso. Filippo Turetta e Alessandro Impagnatiello in primo grado hanno avuto il carcere a vita. Quindi che bisogno c’era di prevedere una fattispecie autonoma di reato, se non per una sorta di “populismo giudiziario”, come lo chiamano i detrattori? La seconda criticità rilevata è che il ddl introduce nel Codice penale una disparità di trattamento tra chi uccide una donna e chi uccide un uomo: il nostro ordinamento – dicono gli avvocati dell’Unione delle Camere penali – si basa su un principio di eguaglianza e riconoscere una tutela speciale alle donne, secondo i professionisti, violerebbe questo principio e dunque non passerebbe il vaglio della costituzionalità. «Il disegno di legge non segna una differenza morale tra l’uccisione di un uomo e quella di una donna. Riconosce però una specificità, che è dimostrata anche dai numeri: ci sono tante, troppe donne uccise dagli uomini, mentre è rarissimo che accada il contrario», ha respinto questa critica la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella. In effetti i femminicidi sono un fenomeno così massiccio – 113 uccise nel 2024, di cui 99 vittime di violenza familiare o all’interno di un rapporto affettivo -, la punta di un iceberg della «sperequazione di potere», come la chiama Valeria Valente, che una “tutela speciale” e rafforzata per le donne non sembra poi un’idea così bizzarra. C’è un altro aspetto originale nel testo: si parla genericamente di “donna”, non di “moglie” o di “compagna” o di “persona legata da vincoli affettivi”, anche trascorsi, con l’omicida. Non è necessario, cioè, che tra la vittima e l’omicida ci sia o ci sia stato un legame perché si possa parlare di femminicidio: ciò apre le porte, evidentemente, a un’estensione della fattispecie di reato. Un altro ente di rappresentanza degli avvocati, l’Organismo congressuale forense, obietta che il ddl, con i suoi interventi normativi che aumentano le garanzie per le vittime di violenza, realizza una «marginalizzazione dell’accusato nel processo, a vantaggio della persona offesa». Una valutazione che lascia trasparire la preoccupazione, peraltro del tutto legittima per un penalista, di chi si trova a difendere un uomo accusato di violenza di genere. Su questo punto il sociologo Luca Ricolfi esprime una valutazione particolarmente problematica, in particolare sulla vaghezza della formulazione del ddl: «Dire che c’è femminicidio se una donna viene uccisa “in quanto donna” è del tutto vago e indeterminato (…) lascia presagire che il dilemma se un certo omicidio sia o non sia femminicidio si risolverà in un modo piuttosto o nell’altro a seconda della personale visione del mondo e sensibilità del giudice».


Non solo pena, più educazione
Su due aspetti forse si può essere tutti d’accordo. Il primo è che un’aggiunta al Codice penale di tale rilevanza forse merita una accurata e approfondita discussione in Parlamento. Il secondo è che il pugno duro contro chi si macchia di crimini di genere non può essere l’unica risposta a un fenomeno complesso e pervasivo come la violenza contro le donne, che ha una forte componente storica e culturale – residui del patriarcato, desiderio di controllo, incapacità di riconoscere e accettare l’indipendenza e l’autonomia delle donne da parte… Da una parte non sembra che un inasprimento della pena – teorico perché, come detto, già ora il femminicida può essere punito con il carcere a vita - possa avere una efficacia deterrente su un uomo che decide di uccidere “una donna in quanto donna”. Dall’altra il cambiamento non può che partire dai più giovani, e quindi dall’educazione alla parità e al rispetto, in famiglia e nelle scuole. Ma questo è un altro capitolo della storia. Il più urgente.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: