Giovanni Apolone - Imagoeconomica
«Il cancro è la seconda causa di morte in Italia e nei principali Paesi ed è destinata a diventare nell’arco di un decennio la prima. Tuttavia grazie a un lento ma progressivo aumento delle conoscenze che hanno permesso di intervenire prima e meglio e di guarire, oggi è molto aumentata la nostra capacità di curare i tumori. Tutto questo è frutto della ricerca scientifica». Giovanni Apolone, 68 anni, dal settembre 2015 è direttore scientifico dell’Irccs Istituto nazionale dei tumori (Int) di Milano dopo aver ricoperto analogo incarico all’Irccs Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio-Emilia, e guida una “squadra” che comprende circa 650 ricercatori (sulle 2mila persone che lavorano all’Int) distribuiti in 27 laboratori.
La Fondazione Irccs Istituto nazionale dei tumori di Milano - Imagoeconomica
Gestisce un budget destinato alla ricerca di circa 60 milioni di euro, di cui solo 10 vengono direttamente dal ministero della Salute. Ritiene che l’Italia non sostenga a sufficienza la ricerca scientifica, ma anche che ci sia bisogno di accurate analisi e riorganizzazioni per poter aumentare i finanziamenti, e innescare quel circolo virtuoso tra clinica e laboratorio, di cui un Irccs come l’Int è esempio in Italia e nel mondo: «Non solo dove si fa molta buona ricerca aumentano le chance di avere di avere una buona qualità di cura, ma anche dove c’è una buona qualità di cura aumentano le chance di avere una buona ricerca».
Le malattie oncologiche restano una delle maggiori preoccupazioni per la salute. Come mai?
Si stima che circa 4,5 milioni di italiani, il 7% della popolazione, convivano con un tumore, cioè hanno avuto una diagnosi di cancro nei 5 anni precedenti e sono vivi con o senza malattia, “congelata” dalle terapie attuali. Io stesso ho ricevuto 12 anni fa una diagnosi di tumore al rene (poi asportato) e una recidiva nel 2018. Lo controllo grazie a una delle terapie disponibili da pochi anni. In Italia abbiamo più di mille diagnosi al giorno (oltre 300mila all’anno) e sono destinate ad aumentare.
Da un lato non controlliamo abbastanza i principali fattori di rischio individuale: fumo, alcol, sovrappeso e inattività fisica (prevenzione primaria). Dall’altro l’età media della popolazione sta aumentando e l’incidenza del cancro è legata all’invecchiamento, perché è una malattia degenerativa. Ecco perché i tumori, oggi la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari, sono destinati a superarle nel 2030-2035. Ma se per l’invecchiamento non si può far molto, migliorando la prevenzione primaria ridurremmo del 40% i casi di tumore. E se si implementassero i tre programmi di screening (mammella, colon-retto, prostata) anticiperemmo del 30% la diagnosi, aumentando curabilità e guarigione.
Quali sono i principali risultati raggiunti nella cura dei tumori?
La ricerca offre continuamente opportunità di diagnosticare prima (Tac, risonanza, Pet sempre più accurate), e di curare meglio grazie alla combinazione di tre armi, usate quasi sempre in combinazione: chirurgia, radioterapia, e la cosiddetta terapia medica, cioè in senso lato e impreciso, la chemioterapia. Siamo nel pieno di una rivoluzione biologica che permette di accertare l’origine genetico-molecolare delle alterazioni che portano la cellula normale a diventare neoplastica. Con una biopsia o una biopsia liquida (cioè identificando prodotti del tumore in circolo nel sangue) siamo in grado di profilare il tumore dal punto di vista genetico-molecolare. Quello che era “il” tumore al polmone (al massimo di due o tre tipi) ora ci sono decine di sottogruppi, e lo stesso avviene per il tumore della mammella.
Il tumore deriva da una cellula sana che si altera, perché le sostanze cancerogene le fanno perdere il controllo e la cellula comincia a fare cose diverse da quelle che dovrebbe. Adesso siamo in grado di identificare queste alterazioni genetico-molecolari, e siamo spesso in grado di accoppiare terapie mirate su specifiche alterazioni. Ne deriva che su centinaia, o migliaia, di sottotipologie in alcuni casi riusciamo a guarire, in altri casi abbiamo migliorato cure e sopravvivenza, in altri non siamo ancora riusciti. In certe patologie molto frequenti (mammella, prostata) le percentuali di sopravvivenza a 5 anni superano il 90%; su tutti i tumori siamo al 60-65% (con differenze tra uomini e donne). Il lento ma progressivo aumento delle conoscenze ha permesso di curare prima e meglio e di guarire di più.
Quali sono i principali progressi in campo farmacologico?
Da un lato la scoperta – da parte di Judah Folkman – della capacità del tumore di crescere formando nuovi vasi sanguigni che lo alimentano (angiogenesi) ha prodotto una nuova generazione di farmaci: gli inibitori dell'angiogenesi. A differenza dei chemioterapici, che colpiscono il tumore ma uccidono anche altre cellule (di qui gli effetti collaterali su capelli, mucose e sangue) gli inibitori della tirosin-chinasi agiscono sul tumore e sul microambiente, inibendo la capacità del tumore di chiamare sangue e creare nuovi vasi sanguigni: riducendo l’apporto di sostanze nutritive il tumore va in necrosi.
L’altra grande categoria di farmaci innovativi, su cui si è basata l’assegnazione del premio Nobel per la medicina nel 2018 a James Patrick Allison e a Tasuku Honjo, sono i nuovi immunoterapici. Si è scoperto che certi tumori producono sostanze che eludono il nostro sistema immunitario e immobilizzano i linfociti e i globuli bianchi. Questi nuovi immunoterapici “riarmano” le nostre difese e hanno cambiato la storia naturale di alcuni tumori. Si sono dimostrati efficaci dapprima nel melanoma, in fase avanzata aldilà di ogni opzione chirurgica o terapeutica, poi in alcune sottocategorie di tumore al polmone, tumori della testa e del collo e tumori del rene. Attualmente all’Int fatte 100 le somministrazioni di farmaci, 40 sono immunoterapici, da soli o in combinazione: solo dieci anni fa non esistevano.
Quali sono i principali problemi da risolvere?
Ci sono tumori molto sensibili alle nuove terapie, altri che non lo sono, e stiamo studiando come renderli sensibili. In più i nuovi strumenti diagnostici e terapeutici non sono ancora diffusi omogeneamente. L’Italia ha circa mille ospedali: 54 di questi (il 5%) sono stati riconosciuti dal ministero della Salute quali Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), i quali, attraverso approcci di tipo multidisciplinare e traslazionale, sono in grado di trasferire i risultati della ricerca nella pratica clinica corrente.
Dodici sono Irccs oncologici, ma non sono distribuiti in modo adeguato sul territorio, anche se le analisi biologico-molecolari, che fino a pochi anni fa si eseguivano in pochi centri al mondo, ora sono disponibili in molti ospedali italiani, non solo Irccs. Tuttavia c’è ancora una percezione da parte del cittadino (non sempre esatta) che si curi meglio a Milano rispetto a Napoli o Bari. Talvolta c'è un'effettiva incapacità dei sistemi regionali di rispondere alle esigenze dei pazienti e riscontriamo, a valle, una migrazione sanitaria da Sud a Nord. È un problema anche europeo: molto omogenei nel garantire le cure sono solo due o tre piccoli Paesi tra i 27.
Queste disomogeneità si ripercuotono sui risultati delle cure?
Confrontando gli indicatori epidemiologici, organizzativi, economici, finanziari e sociodemografici, sia tra gli Stati, sia all’interno dei singoli Stati, appare una grande variabilità inaccettabile sia nella probabilità di avere la malattia, sia nella capacità di curarla e nei risultati, in termini di mortalità, sopravvivenza e qualità della vita. In Italia la gente si sposta anche per migliorare le probabilità di accedere alle terapie innovative tipiche degli Irccs.
Infatti all’Int conduciamo 700 sperimentazioni cliniche, in cui studiamo nuovi farmaci, e reclutiamo migliaia di pazienti, che ottengono in tal modo in anticipo le cure che diventeranno standard. Attiriamo malati anche per le tecniche diagnostiche basate sul sequenziamento che analizzano oltre 500 indicatori di alterazione genetica, a cui possiamo rispondere con farmaci noti o con uso off label. In più gli studi clinici attuali sono sempre più mirati, grazie alla nostra capacità – in fase preclinica – di identificare target su cui indirizzare candidati farmaci. In definitiva, l'Int è un ambiente estremamente favorevole che integra ricerca, cura e formazione (siamo tra le prime scelte degli specializzandi in oncologia) in un sistema regionale virtuoso.
Occorrono più risorse per la ricerca?
L’Italia investe circa l’1,5% del proprio prodotto interno lordo, molto meno di altri Paesi europei ad alto reddito, che arrivano al 3-4%. In più la quasi totalità dei fondi serve a mantenere le strutture e pagare gli stipendi. Abbiamo il più basso tasso di ricercatori per 100mila abitanti d’Europa, con l’età media più alta e con gli stipendi più bassi. Tuttavia l'Italia è un'eccellenza in Europa per la ricerca biomedica, e anche sul cancro, per qualche motivo legato alle nostre capacità di formare, di interagire e collaborare. Ma prima di aumentare gli investimenti credo che servano alcuni interventi preliminari: una analisi della situazione, una valutazione dei bisogni, una valutazione delle priorità e una riorganizzazione, perché investire in un sistema inefficiente è una perdita di denaro e di tempo.
Ma all'Int soffriamo di più per le regole tecnico-burocratiche che rendono difficile utilizzare i fondi. Bisogna seguire regole pensate per grandi opere pubbliche: il risultato è che per comprare una nuova Tac ci metto un anno e mezzo, un ospedale privato due settimane.