Settembre, il mese dedicato all’Alzheimer, costituisce ogni anno un momento di pensiero dedicato. Il numero delle persone ammalate aumenta sempre più, i servizi non sono in grado di rispondere al bisogno nel nostro Paese e hanno una distribuzione disomogenea; le difficoltà delle famiglie si aggravano, in particolare a causa della solitudine, gli stessi progressi terapeutici, nei quali tutti abbiamo fortemente creduto (e sperato) , sono in una condizione di stallo. Tuttavia, nonostante queste crisi, che potrebbero stendere un velo di pessimismo sul futuro dei nostri concittadini ammalati, abbiamo il dovere di guardare avanti, di fare proposte e costruire progetti utili a chi soffre. Il pessimismo non è concesso a chi si deve occupare della sofferenza, specie se, per dovere professionale, si dedica a migliorare la vita degli altri. Il pessimismo non può essere praticato in particolare dai cristiani, perché guardano lontano e coltivano la speranza. Così come la continua denuncia di ciò che non funziona, senza indicare le possibili soluzioni, è dannosa, perché rinforza le condizioni di difficoltà psicologiche, senza offrire indicazioni concrete per uscire dalla crisi.
Due sono le strade da percorrere perché la vita degli ammalati e delle loro famiglie possa trovare punti d’appoggio di valore, cioè risposte alle loro richieste di accompagnamento e di supporto. La prima è la competenza. La nostra società è alla ricerca di un numero di persone che per formazione ed esperienza siano in grado di rispondere in maniera adeguata alle richieste di chi soffre, in particolare se affetto da demenza. Per raggiungere questo obiettivo occorre che le professioni di cura, soprattutto quelle dedicate alle malattie croniche, siano ritenute di valore, in particolare da parte dei giovani. Ciò purtroppo non sta avvenendo, come certificato dai numeri sugli abbandoni e sulla scarsità di interesse per la formazione in questo ambito. Un esempio particolarmente impressionante viene in questi giorni da Trento, dove per il test di accesso al corso di laurea in Infermieristica, su 200 posti disponibili, le domande di iscrizione sono state 140. Il dato è definito drammatico dall’Ordine provinciale, secondo il quale «la previsione è che nei prossimi 10 anni circa 1.300 infermieri andranno in pensione, con una media di 130 persone all’anno, a cui si aggiungono le uscite, in progressivo e significativo aumento, per dimissioni volontarie». Come fare perché il sistema sanitario non si privi della competenza sempre esercitata dagli infermieri? Questa realtà si deve confrontare con l’invecchiamento della popolazione e la crisi della famiglia, la quale richiede interventi sostitutivi da parte dei servizi, come non avveniva fino a qualche anno addietro.
La stessa difficoltà di reclutamento colpisce anche i medici, sempre meno portati ad affrontare impegni faticosi come quelli della cura delle persone anziane. In questo stesso ambito si collocano i dati sullo scarso fascino esercitato dalle scuole di specializzazione che riguardano le malattie croniche. Peraltro, anche la funzione di operatore socio-sanitario è sempre meno appetita, mentre il sistema sanitario e assistenziale avrebbe l’esigenza di poter contare su un numero maggiore di loro.
Quali risposte di valore dovrebbero essere date per riequilibrare una situazione che nel complesso tende a essere sempre più precaria? Il primo punto è di carattere economico; oggi la valutazione economica del lavoro di cura è molto bassa e, quindi, non soddisfacente per garantire la possibilità di una vita serena a persone che sono impegnate senza sosta con mansioni non facili, turni difficili, coinvolgimento emotivo, talvolta molto pesante. Il secondo punto riguarda il senso da dare all’assistenza di una persona molto fragile; il lavoro non deve essere vissuto come la gestione di un fallimento ma come l’accompagnamento di un’umanità non cancellata dalla perdita delle funzioni cognitive. Nel caso delle demenze come è possibile garantire una preparazione specifica, sia sul piano diagnostico-terapeutico sia su quello assistenziale? La formazione non è adeguata; di conseguenza, la preparazione si fonda qui sull’esperienza, talvolta guidata dal gruppo di lavoro, talaltra no. È centrale la formazione degli operatori all’attenzione e alla curiosità, così che possano raggiungere una conoscenza non superficiale della persona da aiutare, così da diventare la loro “sentinella” nei complessi, lunghi e spesso dolorosi percorsi della cura.
Cito il cardinale Tolentino Mendonça: «Nella filologia della parola “sentinella” pulsa il richiamo a farci custodi della sentina, che è lo spazio, nella parte più bassa della nave, dove si deposita l’acqua proveniente dalla pioggia o dal mare agitato. La sentina ci dà una visione anti-eroica della nave, profondamente attenta al reale e alle sue infiltrazioni, che dobbiamo abbracciare». Non potrebbe esserci una descrizione più illuminante dell’attenzione esercitata dall’operatore sanitario, che guarda alla realtà nelle sue dinamiche più vere. In particolare, nella cura delle demenze la funzione di sentinella è importante, sia perché l’ammalato ha bisogno di essere accompagnato sia perché l’evoluzione della malattia è spesso improvvisa e quindi bisognosa di cure che in ogni momento sappiano adeguarsi alle circostanze clinico-biologiche e psico-sociali.
La seconda condizione per la cura delle demenze è la tenerezza. La cura è espressione di tenerezza; se manca questa caratteristica del rapporto tra le persone i risultati sono minati dall’inizio, perché, come scrive Albert Camus, «un mondo senza amore è un mondo morto, e giunge sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio, per reclamare invece il volto di un essere umano, e il cuore meraviglioso della tenerezza». La tenerezza diventa sempre più un’emergenza sociale, nel tempo in cui verifichiamo, spesso con improvvisa drammaticità, la nostra vulnerabilità, il dolore che non abbandona e abbatte, la solitudine. La tenerezza è una dote che la cura non può dimenticare, perché è il veicolo irrinunciabile per la parola, la vicinanza fisica, l’ascolto. Nel caso di chi è affetto da demenza la tenerezza assume un volto del tutto particolare, perché la persona indifesa esercita in chi le sta vicino un sentimento delicato di prossimità, un tentativo di comprendere le sfumature del volto o quelle di una parola apparentemente incomprensibile.
Riporto una frase di Michela Marzano che testimonia una profonda tenerezza verso la persona che assiste: «Ho pensato che definire il dono come un dare qualcosa senza essere consapevole del fatto che si sta donando significasse distruggere la possibilità stessa del dono. Come si fa a donare (o a ricevere) senza averne la consapevolezza? Poi ho vissuto l’esperienza della demenza della madre di mio marito e sono stata costretta a ricredermi. All’inizio pensavo che sarei stata io che avrei dato qualcosa a lei, per compassione nei suoi confronti e per amore del figlio. Poi, pian piano, ho capito che, senza rendermene conto, ero stata io ad aver ricevuto da lei il regalo più grande. (...) Era stata lei, forse senza saperlo, a farmi sentire importante e a riconoscermi, nel senso profondo del termine: non sapeva chi fossi davvero, ma mi riconosceva come persona, forse come la figlia che non aveva mai avuto». La tenerezza permette di conoscere l’altro nel profondo, senza fermarsi alle apparenze. Ma la tenerezza è figlia della generosità, del desiderio di vicinanza operosa con l’altro. È quindi il modo più vero per esercitare una cura. Unita alla competenza (non solo quelle dei professionisti, ma anche quella dei caregiver informali, che nel tempo acquisiscono enormi sensibilità e adeguate capacità operative), la tenerezza permette di costruire un pezzo di speranza per la persona che soffre, anche se non ne è consapevole.