venerdì 28 marzo 2025
Cinque anni fa in piazza San Pietro, Francesco si confrontò a nome nostro col mistero di una prova che toccava tutti e ciascuno. Dentro una nuova tempesta globale, quelle parole ci interrogano ancora
27 ottobre 2020: il Papa in piazza San Pietro per il Momento straordinario di preghiera in pandemia

27 ottobre 2020: il Papa in piazza San Pietro per il Momento straordinario di preghiera in pandemia - Foto Siciliani

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Quel giorno lo ricordiamo tutti, forse persino il posto dov’eravamo quando ci apparve il Papa in mezzo a piazza San Pietro, deserta in un crepuscolo da tregenda, sferzata da vento e pioggia, come luci del mondo solo i lampeggianti di ambulanze e polizia. Uno stato d’assedio interiore. Insieme a Francesco, la Salus Populi Romani e il Crocifisso di San Marcello al Corso. Ricordiamolo, il silenzio che ci scese nel cuore davanti a quell’uomo che affrontava per noi il mistero del dolore. Perché se lo cerchiamo c’è ancora, e ha molto da dirci. L’emergenza pandemica era iniziata solo poche settimane prima, ma il 27 marzo 2020 – cinque anni fa – già eravamo pienamente dentro un’aspra e improvvisa notte. Consapevoli del buio, ma non ancora in grado di capire di cosa fosse fatta l’angoscia che sperimentavamo. Insieme agli altri, certo, ma sapendo che si trattava anzitutto di un esame personale. In quella solitudine di ciascuno, il Papa portò una presenza, ci si fece accanto. L’ha fatto ancora, misteriosamente, durante la sua lunga degenza in ospedale: come a dirci con la sua persona, in un caso e nell’altro, che non siamo mai soli quando attraversiamo la selva oscura della vita, che non è un errore di percorso, una parentesi, una pagina da strappar via al più presto, ma un’opportunità per capire cosa ci stiamo a fare al mondo, e come siamo fatti noi davvero.

Risuonano da quella sera di tormenta meteorologica e spirituale le parole che il Papa pronunciò citando il Vangelo della “tempesta sedata”. L’impressione, a riascoltarle oggi, è che siano ancora in attesa di una vera risposta, tanto furono capaci di arrivare in quel preciso momento della storia collettiva e personale al centro stesso della nostra vita.

Perché arrivassero là da dove non si sono più mosse occorreva infatti che constatassimo che era «venuta la sera», come per i discepoli sospesi sulle acque agitate. Solo così, duemila anni fa come durante la pandemia, e ancora adesso sotto lo scacco di guerre e crisi planetarie, avremmo potuto renderci conto di «trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda», perché «su questa barca... ci siamo tutti». Ora come allora, il tempo della prova «smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità», volenterosi ma alla prova dei fatti preoccupati più che altro di «anestetizzare» la coscienza con «abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici», scoprendoci al dunque privi «dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità». La sosta globale bruscamente imposta dal virus, con i suoi drammatici costi umani e sociali (che stiamo ancora pagando), impose di confrontarci con gli esiti di uno stile di vita pago di sé e ignaro della direzione e del senso di una frenesia irrisolta, che ha finito con l’accumulare una colossale energia insana liberata poi come in una serie di terremoti tra guerre in armi, conflitti politici, spasmi sociali, rivalse di fazione, ferite interiori.

Eppure, ci dicemmo per tutto il tempo pandemico che “nulla sarebbe stato come prima”, forse sperando di scoprirci diversi da quel che ci stava mostrando lo specchio di una imprevedibile crisi: «Siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto – disse il Papa –. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta». Non sembrano parole che aspettano ancora di essere prese sul serio? L’esame di coscienza di quella memorabile “Statio Orbis” resta senza sconti: «Con la tempesta – ci incalzò Francesco – è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».

A parlare fu un profeta, e rimase anch’egli inascoltato. Forse credemmo esagerasse: «Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato», espressione quest’ultima rimasta scolpita come una delle formule più precise per comprendere il dramma del nostro tempo. Serve allora il coraggio di una nuova “statio” personale, una sosta pensante davanti alle domande di una realtà non meno cupa, che ci scopre ancora sgomenti, disarmati, àfoni, proprio mentre il mondo attorno ci appare in tutta la sua complessità.

Dentro questo stato d’animo inquieto e per ciò stesso aperto alla speranza scopriremo le domande che ci attendono: «La fragilità umana – ha scritto il Papa dal Gemelli solo pochi giorni fa – ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide». Parole in cui si sente l’eco della questione epocale che Francesco ha piantato una volta per tutte al centro della piazza in cui siamo soli davanti a noi stessi, definendo cinque anni fa il «tempo di prova come un tempo di scelta (...), il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Che ci siano istituzioni autorevoli per le quali davanti all’emergenza “ciò che conta” è portarsi dietro un kit con barrette energetiche e carte da rubamazzo offre la misura di una sproporzione collettiva rispetto al momento, una dismisura che pare sovrastarci, ma che non ci può piegare se, tornata la sera, nella barca della vita sappiamo di non essere mai soli.

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