sabato 29 marzo 2025
Con una storia disturbante in cui due adulti che fanno tutto ciò che ad un genitore del terzo millennio viene chiesto di fare, il regista ci mette un dubbio tremendo nel cuore e nella mente
Una scena della serie tv «Adolescence»

Una scena della serie tv «Adolescence» - Netflix / Fotogramma

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Adolescence è un pugno nello stomaco per noi genitori del terzo millennio. Racconta una storia estrema che quasi certamente non vivremo mai. Ma al tempo stesso ci dice che ciò che ha generato il dramma intorno al quale la serie ruota – un preadolescente viene incarcerato perché sospettato di aver ucciso a coltellate una coetanea – è già dentro le nostre vite, sta già accadendo ai nostri figli. Ci racconta di una famiglia composta da due genitori amorevoli. Ce li mostra seriamente coinvolti e interessati a fare sì che il proprio figlio abbia la migliore vita possibile. Il padre di Adolescence usa la propria paternità per medicare le ferite della paternità che ha vissuto quando il figlio era lui. C’è empatia e sensibilità nei due adulti che di colpo vedono la loro vita cambiare in cinque minuti, quando una squadra speciale della polizia irrompe di prima mattina nella loro casa.

È la scena di un risveglio tragico e inaspettato. La polizia entra con le armi spianate in una casa dove tutti dormono. Abbiamo la percezione che sia alla ricerca di un criminale pericoloso. Quel criminale è Jamie, tredicenne con il corpo e lo sguardo di un bambino sospettato di essere l’assassino di una compagna di classe. Quando Jamie viene prelevato dalla polizia per essere portato in prigione, piange come un bambino. Il papà lo rassicura: «Ci penso io a te. Vedrai che ne verremo fuori». Si ha la sensazione che sia tutto uno sbaglio. Non può essere che quella “faccia d’angelo” sia il vero colpevole di un crimine tanto orribile. Si apre una crepa dentro di noi: non sappiamo più chi è il colpevole in una scena tanto destabilizzante.

Ma ci viene da dire: la polizia sta sbagliando. E invece… l’intera serie è una lunga narrazione di questo “e invece”. Ci porta alla totale demolizione delle nostre certezze. Scopriamo la solitudine di Jamie, rappresentante di una generazione di bambini e bambine che – una volta entrati nella preadolescenza – si sono trovati a lasciare il pallone e i pennarelli con cui riempivano il loro tempo libero e ad avere in mano uno smartphone, rimanendo per ore chiusi nella propria stanza. Jamie è il testimonial di una mutazione – che potremmo definire antropologica – del passaggio da infanzia ad adolescenza in cui i giovanissimi invece che fare squadra, generare appartenenze, esplorare la vita dal lato giusto (ma verrebbe da chiedersi se ne esiste ancora uno, quando hai 11-12 anni nel terzo millennio e appartieni alla Generazione Zeta) si trovano immersi in dinamiche aggressive e violente, a base di bullismo, vergogna, disprezzo, esclusione, giudizio. Il film racconta una pubertà in cui i luoghi della vita reale diventano un ring, che amplifica la gogna sempre in azione dentro i social media, raccontando un tempo in cui non sai più che è un amico e sperimenti la fatica di muoverti in un gruppo in cui tutti sono contro tutti.

Un mondo, in cui il reale, contaminato dal virtuale, ti porta a 12 anni a parlare di cose di cui non comprendi nemmeno il senso, abitando una vita in cui tutto avviene troppo presto, troppo velocemente, in modo troppo intenso. Una vita in cui gli adulti si trovano sempre in altri luoghi rispetto a quelli frequentati dal figlio. E in realtà nemmeno potrebbero starci in quei luoghi, perché si tratta di communities, social media e chat, spazi digitali che hanno preso il posto del cortile, della panchina nel parco, del campetto di calcio dell’oratorio. Gli adulti non si accorgono di questo “altrove” in cui sostano per molte ore i loro figli, perché quell’altrove è dentro casa loro, nel luogo più sicuro della vita, in cui ad un figlio non può accadere nulla di male: la sua cameretta.

Così, con i figli protetti e al sicuro tra le pareti di casa, gli adulti escono fuori nel mondo, lavorano incessantemente, si sconnettono da loro, travolti dal “troppo da fare che abita le loro vita” fino a dover ammettere, proprio come dice il papà di Jamie, che all’improvviso del proprio figlio non sanno più nulla, lo hanno completamente perso di vista. Il regista ci inchioda a questa consapevolezza, che noi non vorremmo mai sentirci proporre. Con una storia disturbante e perturbante in cui ci sono due adulti che fanno tutto ciò che ad un genitore del terzo millennio viene chiesto di fare, il regista domanda ai suoi spettatori: «Tu mamma e papà, sai davvero chi è tuo figlio che dorme nella sua camera?» e ci mette un dubbio tremendo nel cuore e nella mente, quando ci fa capire che Jamie è un 13enne che nella notte seguente l’assassinio della sua coetanea si è addormentato stringendo un orso di peluche tra le mani, le stesse mani che secondo l’accuso poche ore prima hanno invece stretto un pugnale. Chi è quel figlio che stringe un orsetto e uccide con un coltello? Potrebbe essere nostro figlio? Potrebbe essere il suo migliore amico? Tu guardi Adolescence e non sai darti risposta. È in questa sospensione, che mescola dolore e paura, che il film ci colpisce dritto al cuore. E non ci lascia tranquilli.

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