Ecco, diciamocelo senza paura: non è proprio la gioia il sentimento prevalente in questo nostro tempo così travagliato e ferito. Anzi, stretti in uno scenario di “policrisi”, come ci dicono gli esperti, ci sentiamo esposti alle intemperie, schiacciati da pesi dei quali non sappiamo come liberarci, indifesi davanti a minacce che fatichiamo a definire. Come può allora la Chiesa oggi parlare di “gioia piena”? Non è forse una follia pensare alla nostra epoca come fonte di speranza e di luce per il cuore? Sì, lo è: è senza ombra di dubbio una cosa da pazzi. O forse no, forse è la testimonianza di un popolo innamorato di Dio e l’amore divino, si sa da sempre – basti chiedere ai tanti santi bollati come psicologicamente instabili dai loro contemporanei – agli occhi del mondo è semplicemente, illogico, irrazionale, scomodo, inaccettabile. Follia appunto. E quindi di cosa parlano le mille persone che, in rappresentanza di tutte le comunità cattoliche del Paese, in questi giorni si sono riunite a Roma per la Seconda Assemblea sinodale? Con che coraggio hanno messo al centro del loro confronto la frase «Perché la gioia sia piena», scelto come titolo del documento che conterrà le proposte (le Proposizioni che poi i vescovi voteranno in Assemblea a maggio) frutto di un cammino durato quattro anni? Davvero la gioia può essere la chiave che aiuterà la Chiesa a dare risposte più efficaci alle attese delle donne e degli uomini di questo nostro tempo?
La risposta a questa domanda darà la misura della riuscita del Cammino sinodale avviato nel 2021, perché lo scopo di tutto il processo, come è stato ricordato ieri all’apertura dei lavori in Aula Paolo VI in Vaticano, non è solo quello di ripensare procedure, strutture, organizzazione, volto delle comunità cattoliche del nostro Paese, ma è proprio quello di fare strada assieme, di toccare sempre più il cuore del mondo per trasformarlo. E se i temi e le questioni sui tavoli di lavoro sono innumerevoli (dalla formazione dei cristiani, all’impegno caritativo, dalla promozione dello sviluppo umano integrale all’accoglienza dei fragili, dall’utilizzo di nuovi o rinnovati linguaggi nell’esprimere la vita di fede e raccontare la vita pastorale fino al ripensamento delle strutture di governo e amministrazione della Chiesa), in realtà il filo rosso a tenere insieme tutto è rappresentato proprio dallo “stile”, dalla modalità di partecipazione all’esperienza ecclesiale. E passa precisamente da qui la capacità di portare il Vangelo nella vita dei nostri contemporanei, fin dentro le pieghe più intime della loro esistenza quotidiana, ricordando loro che Dio arriva fin lì, che non sono mai soli. Qui sta la vera “profezia”, il messaggio assolutamente controcorrente, che diventa un esempio dirompente per i potenti del pianeta: nel momento in cui l’istinto ci direbbe di chiuderci dentro i recinti e gli steccati protezionistici costruiti con le armi (militari o economiche che siano), la Chiesa indica la strada della condivisione, dell’uscita dalle proprie zone sicure, della partenza verso le periferie più lontane. E lo fa non da “maestra” seduta in cattedra, ma partendo prima di tutto da se stessa, dalla propria vita ordinaria, ripensandola, avviando nuovi processi, cercando di essere sempre più fedele alla verità di cui è portatrice cambiando prima di tutto al proprio interno.
È questo il potente appello che esce dall’Assemblea sinodale e che riguarda tutti noi, ognuno nella propria vita personale, prima di tutto, ma anche le nazioni e i popoli. A chi pensa che la difesa sia l’unica strategia per rispondere alle minacce, i testimoni del Vangelo hanno il compito di testimoniare che in realtà solo andando verso l’altro, uscendo da noi stessi, è possibile disinnescare i conflitti, superare le distanze e le diffidenze. Ecco perché la gioia è la follia più saggia che esista oggi: essa ci parla della capacità di superare le paure, di abbattere i muri, di gettare ponti.
Ed ecco perché papa Francesco nel suo messaggio ai partecipanti all’Assemblea ricorda che «la gioia cristiana non è mai esclusiva, ma sempre inclusiva, è per tutti». Che la Chiesa non è questione di minoranze o maggioranze. Che è necessario andare avanti «con gioia e sapienza». Una gioia che «è dono di Dio» e «non è una facile allegria, non nasce da comode soluzioni ai problemi, non evita la croce, ma sgorga dalla certezza che il Signore non ci lascia mai soli».
Ecco la profezia di questa Assemblea che parla della vita della Chiesa, ma che in realtà tocca la vita di ognuno di noi, la nostra visione del mondo e quindi le scelte che facciamo ogni giorno. Al fondo c’è il coraggio di guardare agli altri con quella gioia che disarma e guarisce le ferite del mondo, che ci rende sorelle e fratelli. Lo ha ben sottolineato il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, nel suo intervento introduttivo: «La passione di comunicare la gioia e la speranza del Vangelo si unisce alla coscienza di non separare più la propria salvezza da quella altrui», ha detto. E nell’Anno giubilare, anno che ci insegna il senso del perdono, non potrebbe esserci follia più saggia e coraggiosa.

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