L’Eterno ordinò a Osea di sposare una donna dai trascorsi equivoci. Dio a un tratto gli chiese: «Perché non segui l’esempio del tuo maestro Mosè, che appena assunta la vocazione profetica si negò le gioie delle vita famigliare?». «Non posso congedare mia moglie», rispose Osea. «Se dunque tu», continuò il Signore, «non vuoi separarti da tua moglie infedele, come potrei io separarmi dagli israeliti che sono i miei figli»?
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI
I profeti biblici sono più grandi del loro tempo. L’obbedienza alla voce ha liberato alcune loro parole dalla ferrea legge dell’invecchiamento e della morte. Non è però facile individuare dove si trovino queste parole giovani e diverse nei loro testi. Noi le cerchiamo tra le pagine di luce, di consolazione, di speranza, nei canti d’amore, perché siamo convinti che la bontà e l’amore di Dio debbano esprimersi soltanto nella parte luminosa del mondo, con parole e forme che devono coincidere con quelle che noi abbiamo deciso di assegnare a Dio e alla vera religione. E così, quasi sempre, finiamo per scartare la parte maledetta, le parole dure, le urla di Dio, perché crediamo siano queste le parole invecchiate, quelle imprigionate dentro il loro tempo storico, quindi incapaci di dirci ancora parole di vita. E sbagliamo, sbagliamo quasi sempre, perché la grandezza, anche letteraria, dei profeti biblici sta anche nel donarci parole di vita e di speranza non-vana dentro discorsi e canti che sembrano parlare solo di morte e di disperazione. Troppa ricchezza biblica ci resta inaccessibile perché ricoperta di parole che non riusciamo a decifrare con i nostri codici morali e teologici, perché velata dalla nostra idea di come un Dio-per-bene dovrebbe parlare e cosa dovrebbe dire.
«Mentre sto per guarire Israele, si scopre l’iniquità di Èfraim e la malvagità di Samaria, perché si pratica la menzogna: il ladro entra nelle case e fuori saccheggia il brigante. Non pensano, dunque, che io ricordo tutte le loro malvagità? Ora sono circondati dalle loro azioni: esse stanno davanti a me» (Osea 7,1-2). Il capitolo 7 di Osea è una lunga e continua rassegna di accuse per le colpe che il popolo ha commesso e continua a commettere. L’incipit è la sua chiave di lettura, che i traduttori rendono con espressioni diverse («quando il mio guarire Israele», «mentre guarivo Israele», «se guarissi Israele»...), che dice qualcosa d’importante nella comprensione del modus operandi del Dio di Osea. YHWH continua a voler guarire il suo popolo, non ha smesso di amarlo e quindi di volere la sua conversione e il suo ritorno al Patto. Ma questa volontà di riconciliazione da parte di Dio non è efficace, anzi non fa altro che rendere ancora più evidenti i peccati e le infedeltà del popolo. Come un medico che cerca di curare una piaga e incidendo la carne si rende conto di quanto profondo e diffuso sia il male. Ma, diversamente dalle malattie del corpo, qui il popolo malato non ha nessuna intenzione di guarire, insiste e persiste nelle sue colpe e nella sua condotta perversa: «Con la loro malvagità rallegrano il re, rallegrano i capi con le loro falsità. Sono tutti adùlteri» (7,3-4).
Siamo dentro a un grande mistero della religione biblica, forse uno dei massimi. La fede è una corda (fides), è fedeltà, è un legame, un rapporto, un patto e un’alleanza, è dunque una relazione di reciprocità. Anche se Dio vuole continuare ad amare, e lo fa, affinché si ristabilisca il rapporto, perché, nelle parole di Osea, il popolo possa guarire, c’è un bisogno essenziale che Israele faccia la sua parte, che voglia sinceramente convertirsi, cambiare condotta, e lo faccia veramente e poi mantenga nel tempo i suoi buoni propositi. Qui c’è una importante distinzione tra perdono e guarigione: Dio può perdonare, ma per guarire la relazione malata c’è bisogno di mutualità. In astratto Dio potrebbe intervenire nella storia per cause prime senza chiedere il permesso a nessuno: il Dio biblico no, essendo un Dio-in-relazione, per curare il rapporto con il popolo ha bisogno della sua parte, ha bisogno di un "sì" che gli consenta di diventare nella storia ciò che è già in sé stesso.
Per perdonarci Dio non ha bisogno della nostra reciprocità, ma per guarirci non può fare a meno che noi decidiamo sinceramente di farci curare. Il Dio della Bibbia ha allora un tale rispetto della libertà umana da rinunciare addirittura a questa espressione della sua onnipotenza, e quindi non ci salva se noi non glielo chiediamo. Ci ama al punto di lasciarci all’inferno se non gli gridiamo di portarci in paradiso. Sta qui la debole onnipotenza del Dio dei profeti, che ordina l’orbita delle stelle e le eclissi della luna, ma non può guarire un popolo che non chiede di essere guarito, e resta impotente di fronte alla nostra testarda infedeltà. Ci perdona, settanta volte sette, perdonandoci crea quello spazio vuoto dove potrebbe generarsi il desiderio del ritorno a casa; ma il passo decisivo – «mi alzerò e andrò da mio padre» – possiamo farlo solo noi. Dio può fare al nostro posto novecentonovantanove passi del viaggio di ritorno verso casa, ma almeno uno dobbiamo farlo noi, devo farlo io. Non ama le simmetrie, non vuole il fifty-fifty, ma almeno un solo nostro passo gli è necessario. Preferisce una non-fedeltà libera a una fedeltà non-libera, perché, semplicemente, le fedeltà non-libere non sono degne dei figli ma solo degli schiavi – e YHWH odia tutte le schiavitù, perché è un liberatore.
Dobbiamo poi tener presente che sullo sfondo della profezia di Osea c’è sempre viva e operante la sua storia personale (cap.1), il suo matrimonio paradossale con sua moglie Gomer, infedele e adultera, che continuava a prostituirsi nonostante la fedeltà testarda di Osea. Il profeta – come tanti uomini e donne – continuava ad amarla e magari a perdonarla ogni volta dopo i tradimenti, ma lei non guariva dalla sua malattia. Ecco perché i versi di Osea ci aprono una fessura anche sull’intimità delle nostre relazioni primarie. Alla reciprocità sono associate le pagine più luminose della nostra vita insieme a quelle più buie. Le une si tengono con le altre, le luminose possono brillare grazie alla camera oscura creata, sul retro, da quelle dolorose. Perché nessuno gioirebbe per reciprocità non libere e obbligate, in questa libertà necessaria è dove si trova la possibilità, sempre reale, della non risposta dell’altro, un altro che è sempre eccedente e più libero rispetto al nostro bisogno e desiderio di reciprocità. E se mancasse questa eccedenza tra la mia libertà e il tuo bisogno di reciprocità ogni mia risposta sarebbe insufficiente a soddisfare il tuo bisogno di comunione, che è sempre un bisogno, insieme, di reciprocità e di libertà.
Allora possiamo spingere le parole di Osea fino ad arrivare a una affermazione che potrebbe stupirci ma che, se leggiamo bene, è inscritta nel libro di Osea e nei profeti, e nella teo-antropologia biblica: Dio gioisce e soffre per la nostra reciprocità. È Dio, e ci somiglia. Ci somiglia in tutto, nei dolori e nelle gioie. L’immagine di Dio impressa nell’uomo, verità fondativa della rivelazione biblica, tra i suoi messaggi più belli e audaci, è anche un altro luogo di fragilità di Dio: se la metafora dell’immagine è necessariamente reciproca – noi somigliamo a Dio e Dio somiglia a noi –, non possiamo tener fuori Dio dai nostri dolori e dalle nostre ombre, non abbiamo nessuna ragione per escludere Dio dagli aspetti meno luminosi dell’immagine, se vogliamo evitare di far coincidere Dio con l’idea morale che ci siamo fatti di Lui (come fanno tutte le idolatrie e le ideologie teologiche), e farlo diventare un dio carino, un dio "a buon mercato" (D. Bonhoeffer). Così la Bibbia ci dice che YHWH si rallegra per la nostra fedeltà, gioisce per i nostri ritorni, e quindi soffre quando non siamo fedeli, quando non torniamo e ci volgiamo verso gli dèi sbagliati: «Li volevo salvare, ma essi hanno proferito menzogne contro di me. Non gridano a me con il loro cuore» (7,13-14).
Non gridano verso di me: come ci hanno insegnato i Salmi, Giobbe e l’inizio del libro dell’Esodo, Dio per guarirci-liberarci ha bisogno del nostro grido. A volte gridare non basta, gridiamo e non siamo salvati; ma per sperare di essere salvati occorre imparare a gridare. Il grido è il primo passo della liberazione, è la coscienza di essere malati e quindi di voler guarire. Nella Bibbia (e nella vita) chi non grida non si salva. Chi non grida non ritorna, anche quando si illude (magari in buona fede: 6,1) di ritornare a Dio e in realtà torna al nulla, al non-Dio (non Eljon), a Baal: «Essi ritornano alla vanità, all’impotenza, al non-Eljon» (7,16). E quando si torna in una casa straniera pensando che sia la casa nostra non si riparte più, non si ritorna più.
Incastonata nel cuore di questo capitolo troviamo una bellissima metafora, quella del forno e del pane, che non solo ci fa sentire in presa diretta il profumo del pane che cuoce, un pane-focaccia infornato nel forno infuocato, ma ci fa sentire anche il profumo dell’uomo Osea, capace, come gli altri grandi profeti, di parlare di Dio alla sua gente con le parole di casa, con le parole del pane, della vigna, di un bambino, di una brocca. I profeti hanno la capacità stupenda di dirci parole altissime di Dio attraverso le parole bassissime del nostro quotidiano. Per questo lo penetrano, entrano nelle nostre case, fanno diventare le parole di casa anche parola di Dio: «Perché hanno introdotto come un forno il loro cuore nel loro stare in agguato tutta la notte; dormì il loro fornaio, di mattina bruciava come una fiamma di fuoco... Èfraim è come una focaccia non rivoltata» (7,6-8).
Al tempo di Osea tutti capivano queste metafore di fuoco e di pane, tutti sapevano che una focaccia non girata si guasta tutta: nella sua parte che poggia sulla pietra rovente che brucia e in quella superiore che resta cruda. Il Dio dei profeti sa parlare solo così, non sa dire parole astratte, non conosce i dogmi dei teologi, non gli piacciono i teoremi filosofici. Ama le parole del pane e delle focacce perché ama la gente, quindi parla come loro, non vuole parlare diversamente, ama farsi capire perché è vicino, non ammirare perché è altissimo. I falsi profeti, di ieri e di oggi, adorano invece i discorsi complicati, astrusi e quindi incomprensibili, parlano di cielo perché non sanno parlare di terra, si riempiono la bocca di Dio perché hanno dimenticato gli uomini e le donne e il loro dolore. Quando torneremo a parlare della fede con le parole del pane e della focaccia?
l.bruni@lumsa.it