L’altro e vero nome dei figli
sabato 19 marzo 2022

Evidentemente noi viviamo in un periodo di transizione; ma di transizione verso che? Nessuno ne ha la minima idea. Se vogliamo attraversare quest’epoca buia, dovremmo astenerci, come l’Aiace di Sofocle, dal riscaldarci al fuoco di speranze illusorie
Simone Weil, Oppressione e libertà

Uno dei messaggi più forti e costanti del libro di Osea riguarda l’illusione che la salvezza si trovi nel passato. Ci ha ripetuto che la corruzione e l’infedeltà di Israele erano iniziate già nei suoi primi tempi, quelli dei Patriarchi e di Mosè. La salvezza quindi non sta dietro di noi, sta di fronte, davanti, oltre la linea dell’orizzonte. È il futuro che salva il presente, perché è il luogo della possibilità reale e concreta di cambiamento, è il solo tempo dove possiamo diventare ciò che non siamo ancora e che non siamo mai stati. E ogni volta che cerchiamo nel passato una via d’uscita da situazioni tristi e buie, in un’immaginata e idealizzata età dell’oro dove ritornare per ritrovare radicalità, valori e purezza, stiamo solo investendo le poche energie residue nei posti sbagliati. Ciò vale per le comunità, ma anche per i singoli.

Quando la vita ci conduce in esìli e deserti dove tutto vacilla, incluso il fondamento della nostra storia, vocazione e fede, è inutile e dannoso tornare con la memoria a setacciare il passato per capire se siamo stati ingannati, o per ritrovare quella terra dove scorreva latte e miele e da lì poter ripartire. Il passato ricordato, anche quando è immenso e luminoso, non è mai sufficiente per farci continuare oggi il cammino. Il passato sa dire parole di vita solo se coniugato, qui e ora, al futuro. La terra promessa è la terra di domani. La storia, la vocazione, la fede si salvano generando futuro – a venti, cinquanta o novant’anni. Il Giordano è davanti, dietro ci sono soltanto il Nilo e i fiumi di Babilonia. Il "tornare a Dio" dei profeti è sempre verbo di futuro: «Torna dunque, Israele, al Signore, tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. Prendete con voi parole da dire e tornate a YHWH; ditegli: "Togli ogni iniquità, accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra"» (Osea 14,2-3).

Al termine del suo rotolo, Osea riprende la sua grande polemica contro i sacrifici, e lo fa nel modo più bello, toccando un vertice della sua teologia e poesia. Qui l’alternativa al sacrificio di tori, che era il sacrificio dal costo-valore più alto (Lv 4,14), è posta nella parola, nel movimento delle labbra. Ed è stupendo, perché qui abbiamo una delle prime attestazioni del valore della preghiera orale come sostitutiva dei sacrifici. Dire che la "lode delle labbra" supera tutti i sacrifici è una rivoluzione della religione e del culto perché rovescia la categoria del valore sacro. Il valore di un atto religioso diventa tutto spirituale, perde la sua materialità, esce dal regno della quantità e inizia a diventare una faccenda di cuore (dirà Ezechiele), qualcosa che ha a che fare con le persone e non più con le loro offerte. Nessuna "cosa", neanche la più grande e preziosa, vale quanto un sussurro umano. Questo è l’umanesimo biblico, che raggiunge le nostre liturgie, le nostre Messe, dove quei beni offerti sull’altare acquistano un valore infinito grazie alle parole, e senza di queste sarebbero cose buone ma pur sempre cose. E anche le parole che si dicono durante le liturgie – le preghiere, le letture bibliche, persino quell’umile "la pace sia con te" – non sono contorno, sono sostanza.

In questi versi c’è però anche qualcosa di più, che riguarda direttamente la natura della parola. Possiamo usare le cose e i beni per comunicare tra di noi e persino con Dio. Qualche volta un bene, una cosa, riesce a dire molto, nel bene e nel male. La busta muta con la spesa lasciata sull’uscio di casa da un amico, la biancheria trovata piegata sul letto, l’aumento di stipendio per dirmi "grazie", il pacco con le matite e i quaderni che arriva con il camion. Tutto vero, tutto amore vero. Ma dopo tutto questo, dopo tutte queste cose-parola vere, arriva la parola nuda, arrivano le nostre labbra. E inizia un’epoca nuova, comincia l’età delle donne e degli uomini che parlano, e che parlando possono dire cose che nessuna cosa può dire. Sta qui la dignità delle parole, il valore immenso delle parole nella Bibbia, una parola talmente stimata, amata e custodita da permettere un giorno di scrivere: la parola si è fatta carne.

Sta anche qui il valore della poesia, della letteratura, delle parole scritte e di quelle dette che svaniscono mentre le diciamo. Ci sono realtà umane che valgono perché restano – un’opera d’arte, un libro, un manufatto... – e il loro valore è contenuto anche nella loro materialità. Ma ce ne sono altre che valgono molto proprio perché durano poco, perché mentre le pronunciamo svaniscono e ci nutrono con il loro svanire. Il loro sublime è tale mentre si compie, la loro bellezza è perché è effimera – un tramonto, un arcobaleno, un ti voglio bene, soprattutto l’ultimo grazie. Certo le possiamo materializzare con una fotografia o registrandole, ma noi sappiamo che sono state stupende perché non ci sono più, perché sono restate solo le loro tracce – per questo la parola è l’immagine più vera di cosa sia una persona, di cosa siamo noi: effimeri, eppure poco inferiori agli Elohim (Salmo 8). L’adam creato a immagine di un Dio che "era soltanto una voce", un giorno capì che la parola era ciò che più lo avvicinava a quel suo Dio vero e diverso, che non si vedeva ma che parlava, e noi potevamo entrarci in dialogo parlando. La dignità biblica della parola è dunque faccenda antropologica: è quando parliamo che più somigliamo al Dio-voce. Noi che parliamo e scriviamo dovremmo ricordarlo, ogni giorno, ogni attimo.

Osea ci dice poi che non c’è perdono senza parole – «prendete con voi parole...» – perché il perdono va chiesto. In un altro giorno ascoltammo che il Padre accoglie un figlio prodigo che torna e lo perdona prima che abbia parlato, e così scoprimmo che siamo immagine di Dio anche perché qualche volta sappiamo perdonare chi non ce lo chiede (per-dono).
Osea aveva terminato il suo discorso con un oracolo di condanna su Israele, perché il popolo si era ormai totalmente guastato, aveva creduto nella ricchezza, negli idoli e nel soccorso delle superpotenze straniere – «Samaria sconterà la sua pena, perché si è ribellata al suo Dio» (14,1). Ci aveva anche detto che Dio continuava ad amare il suo popolo, ma che la salvezza ha bisogno della parte umana, una parte che non c’era. Poteva solo svelare la dura verità.

È molto probabile che la profezia dell’uomo-Osea terminasse con questo giudizio del primo versetto del capitolo 14, che le sue ultime parole siano state le parole di chi alla fine della propria vita prende atto del fallimento dell’Alleanza e della sua missione di profeta e accetta con mitezza di non aver ottenuto nessuna conversione del suo popolo. Non è raro – anzi, è la norma – che le vocazioni profetiche terminino la loro esistenza con un profondo senso di fallimento, con la certezza che la comunità alla quale erano state inviate non ha ascoltato il loro messaggio e ha fatto il contrario. L’esistenza terrena del profeta termina sovente in una cupa notte oscura, senza sole e senza stelle – non si capisce nessun profeta vero se pensiamo che "felicità" sia una parola del suo abbecedario.

Ma, grazie a Dio, esistono i discepoli dei profeti. Già in vita o dopo la loro morte, i buoni discepoli possono, devono continuare il libro. Come quelli che curarono buona parte del capitolo 14, e ripercorrendo l’insegnamento di Osea donarono un altro finale al suo libro. Sentirono che le parole, seppure vere, di condanna e di disperazione non potevano essere le ultime parole di Osea, perché il loro maestro e il popolo avevano diritto a un altro finale, iscritto nella loro profezia e che attendeva solo di essere scritto da una mano diversa. I discepoli dei profeti sono anche questo dono di finali che i profeti non riescono a scrivere, che li risorgono dai sepolcri dove li ha condotti la sequela fedele alla voce e dai quali non sarebbero mai usciti da soli. Senza i discepoli la parola di molti profeti sarebbe troppo dura, le mancherebbe la dolcezza dei figli e la pietas degli amici. I profeti veri sanno essere solo onesti, e nella loro onesta fedeltà alla voce non si concedono nessuna consolazione, e guai a noi se non fossero così. Loro non cambierebbero mai i nomi tremendi dei loro figli («Non-amata» e «Non-popolo-mio»): dobbiamo farlo noi. Le pagine di speranza e di consolazione scritte dai discepoli dei profeti sono allora il finale della reciprocità e della gratitudine, sono l’altro e vero nome dei figli: «Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro. Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano. Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano» (14,5-8). In un libro di Osea dominato da figure di animali (leoni, cavalli, orsi, leopardi, leonesse...), la conclusione è adagiata in un ambiente vegetale, in un nuovo Eden di alberi, germogli, rugiada, ulivi, grano, vigne, e il nostro cuore riposa in quella mitezza di alberi che forse sfiora quella dell’appeso al legno.

Altrettanto stupendo, e sempre dono dei discepoli di Osea, è il suo ultimo verso: «Chi è saggio comprenda queste cose, chi ha intelligenza le comprenda; poiché rette sono le vie del Signore, i giusti camminano in esse, mentre i malvagi v’inciampano» (14,10).
Sarebbe molto bello se la nostra lettura di Osea fosse stata quella degli amici dei saggi e degli intelligenti, almeno in qualche pagina, in una sola: quella della fedeltà alla sposa infedele, il dialogo intimo d’amore nel deserto, le accuse ai sacerdoti che si nutrono dei peccati del popolo, il suo grande grido «misericordia voglio non sacrifici», la critica al vitello d’oro e a tutti i piedistalli di statue, «dall’Egitto ho chiamato mio figlio», l’altro racconto della lotta di Giacobbe con l’angelo, il dono dell’incompiutezza. Se in un verso, in un solo verso, abbiamo udito una voce diversa che diceva il nostro nome, la nostra opera avrà dato il suo buon salario. E possiamo concludere con la parola più bella di tutte: grazie.

È giunto il tempo di salutare anche Osea, un profeta amatissimo e immenso, segno e carne, il più umano dei profeti, e forse quello che più ci ha svelato l’intimità di Dio. Un altro commiato, un’altra malinconia, una nuova gioia per poter ancora continuare dopo una breve pausa (di una settimana) con il commento del profeta Daniele. Insieme al direttore Tarquinio, che non ringrazierò mai abbastanza per mancanza di parole, abbiamo pensato che quella dei profeti è forse la migliore compagnia in questo tempo tremendo. Grazie a chi ci ha seguito, grazie a chi continuerà a farlo.

l.bruni@lumsa.it

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