Dal 2008 al 2013, cioè dallo scoppio della “crisi” in poi, in Italia ci sono stati 53mila matrimoni in meno. Un calo molto forte, quello registrato dall’Istat qualche giorno fa, che accentua una tendenza già presente ed è dovuto alle maggiori difficoltà economiche dei giovani, ma anche in gran parte alla trasformazione dei costumi sociali. La tendenza a non mettere su famiglia, così come la difficoltà a costituire legami stabili, sono caratteristiche sempre più tipiche delle nostre società. Un’evoluzione-involuzione che ha come effetto diretto anche il drastico calo della natalità che stiamo sperimentando.L’individualismo, si sa, esige il suo tributo. Ma la diminuzione dei bambini che nascono rappresenta oggi – a causa dello squilibrio generazionale che produce – un problema serio per il nostro sistema Paese, per il suo sviluppo umano complessivo così come per i conti pubblici e la crescita economica. Può sembrare paradossale, ma se la disoccupazione è così alta, questo è dovuto anche al fatto che ci sono troppi pochi giovani attivi in rapporto al numero di anziani in pensione.Se il legame tra denatalità e crisi è abbastanza facile da dimostrare (nonostante che gli economisti su questo argomento tendano ancora ad accapigliarsi), meno indagata è la correlazione tra crisi della famiglia e crisi economica. Certo, sarebbe ardito affermare che il calo dei matrimoni abbia aggravato la recessione, tuttavia c’è un’ampia letteratura scientifica che dimostra come la famiglia rappresenti un indiscutibile “capitale sociale”, e come le misure che puntano a rafforzarla e a renderla stabile siano il fondamento delle politiche per promuovere uno sviluppo sostenibile, a beneficio della collettività. Può essere utile ricordarlo in occasione del Family Act, la manifestazione promossa da un cartello di 27 associazioni in difesa della famiglia e della vita. In questo senso una ricerca pubblicata di recente sull’
International Journal of soustainable development riassume bene lo stato dell’arte sulla questione descrivendo la famiglia e la sua “stabilità” come una risorsa fondamentale contro la povertà, a favore della solidarietà tra generazioni, per lo sviluppo dei bambini, il benessere e lo sviluppo socio-economico, persino la tutela dell’ambiente.Partiamo dalla povertà. Poiché è dimostrato, ad esempio, che chi è povero da piccolo lo sarà quasi sicuramente anche da adulto, una strategia naturale per interrompere la trasmissione del “contagio” è puntare innanzitutto sulla famiglia: una politica di contrasto alla crisi anziché guardare ai redditi dei singoli individui dovrebbe partire dall’aumento dei trasferimenti ai nuclei bisognosi, degli incentivi fiscali alle famiglie, degli assegni famigliari. Su un altro piano, è inevitabile investire risorse per rendere gratuiti (o almeno accessibili) gli asili nido, le cui tariffe oggi in Italia rappresentano una tassa occulta sempre meno sostenibile, ma anche incentivare la pratica dei congedi parentali, che – è dimostrato – aumentano la produttività del lavoro di chi li utilizza e riducono i costi sociali futuri a carico dello Stato.La chiave di lettura economica può sembrare arida e persino cinica, ma aiuta a vedere le cose da una prospettiva in linea con i temi più dibattuti. Due persone che si lasciano e vanno a vivere da sole non solo diventano più povere, ma consumano dal 40 al 60% in più di elettricità e di acqua. Il “costo” della povertà infantile, tra carenza di mezzi e rottura dei legami, è stato stimato incidere fino al 4% del Pil. La solidarietà tra le generazioni, altro tratto distintivo della famiglia, evita l’isolamento degli anziani e permette loro di trasferire cultura e valori alle nuove generazioni, ma si traduce anche in cura dei disabili ed è un bellissimo valore in sé oltre che un beneficio economico quantificabile.Le considerazioni più semplici, a volte, sono anche le più vere. Poter avere un’infanzia serena in una famiglia stabile non dovrebbe essere solo il diritto – questo sì «incoercibile» – di ogni bambino, ma la base per la costruzione di una società più forte nel suo insieme. Tutte le ricerche sui costi sociali, educativi, sanitari ed economici della disgregazione delle famiglie portano a dire che uno Stato non dovrebbe avere a cuore solo la tutela della famiglia, ma anche la sua tenuta. Perché questo non avviene?Non serve dare troppi numeri, quando si parla del valore della famiglia. Ma per un Paese come l’Italia, senza crescita da 13 trimestri consecutivi, con le piazze e le periferie che sempre più manifestano il loro disagio a fronte di un governo che, pure, sta cercando di spezzare la catena del non-vedere, del non-decidere e del non-fare, forse sarebbe bene incominciare a riflettere seriamente, e serenamente, sul fatto che le azioni che mirano a migliorare il benessere delle famiglie sono misure che portano sviluppo e vantaggi a tutta la società. E agire di conseguenza, con decisione. Per riattivare il nostro «motore» dimenticato.