È ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.
In fondo, qualcuno aggiunge, nelle civiltà passate, i lavoratori veri e propri sono stati sempre pochi: la maggior parte della popolazione era infatti composta da cortigiani, nobili, monaci e religiosi, mendicanti, malati, servi, schiavi, o donne che non erano nel 'mercato del lavoro' (anche se hanno lavorato sempre più di tutti). Altri scenari già più positivi immaginano – sempre in un quadro di un lavoro sempre più scarso – che dovremo ridistribuire il lavoro rimasto, lavorando tutti meno per poter lavorare tutti. La settimana lavorativa si ridurrà cosi a 15 o al massimo 20 ore. Lavorare come attività prevalente delle persone adulte, sarebbe stata una fase storica durata più o meno un secolo e mezzo in Occidente, e presto torneremo nella situazione che ha caratterizzato l’umanità per millenni. Una eccezione, una parentesi, una eclisse, una anomalia.
Se questo paesaggio fosse davvero l’unico o soltanto quello più probabile, dovremmo davvero essere molto preoccupati. Ma, grazie a Dio, sulla linea dell’orizzonte ci sono colori meno cupi, che fanno pensare e sperare che il tempo di domani sarà bello. Innanzitutto, dovremmo capire un po’ meglio che cosa è diventato il lavoro in questo secolo e mezzo diverso della traiettoria dell’Occidente. Il lavoro come lo conosciamo oggi non è il frutto di una evoluzione graduale nei secoli passati. No, il lavoro moderno è soprattutto una invenzione, una immensa innovazione arrivata da una congiunzione astrale di molti elementi: l’Umanesimo, il cattolicesimo sociale, la Riforma protestante, il movimento socialista, la cooperazione, i movimenti sindacali, le ferite dei fascismi e delle guerre. Grazie a tutto ciò, in quel breve lasso di tempo il lavoro ha dato vita alla più grande cooperazione che la vicenda umana abbia mai conosciuto nella sua lunga storia. Lavorando, e riempiendo il mondo del lavoro di diritti e di doveri, abbiamo creato una rete sempre più vasta fino a coprire quasi tutto il mondo. I prodotti e i servizi che popolano la nostra vita sono il frutto di una cooperazione di milioni e milioni di persone. Perché io possa scrivere e voi possiate leggere questo articolo, c’è bisogno della cooperazione di decine di migliaia di persone, se non di più – dalla redazione del giornale, alle tipografia, le spedizioni, gli aerei e i treni che trasportano le copie, tutta la rete distributiva, l’energia elettrica, la rete internet, l’industria della carta... Non è una cooperazione romantica né carina: a volte lavorare è duro, durissimo, si muore anche lavorando, e si muore anche perché il lavoro è serio e tremendo come lo è la vita. La democrazia è anche questo, una immensa, implicita, forte, capillare, azione congiunta, che moltiplica le opportunità e la biodiversità economica e civile della terra. Il mercato è questa grande cooperazione, anche quando prende la forma della concorrenza – cooperiamo anche competendo, in modo corretto e leale, sui mercati: uno degli errori teorici e pratici più gravi è contrapporre concorrenza a cooperazione.
Imparando a lavorare, e a lavorare con gli altri, abbiamo orientato le nostre energie e la nostra creatività in modo che potessero fiorire pienamente, e raggiungere e servire un numero sempre maggiore di persone. Noi abbiamo molti modi per esprimere la nostra intelligenza, creatività, amore; ma quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima. Diventa qualcosa di meraviglioso. Mozart ha fatto molte cose nella sua vita, ma quando componeva Mozart era Mozart davvero. Il mio amico Vittorio faceva molte cose, di qualità diversa, ma quando riparava le auto era veramente Vittorio. E io ho imparato a conoscerlo quando ho cominciato a guardarlo lavorare, perché quando lavorava, nella fatica e con le dita nerissime, la sua personalità fioriva, e la sua anima più vera si svelava. Lavorare è anche un modo adulto di amare, un modo serio e vero che abbiamo di contribuire al bene nostro e a quello degli altri. Se un giorno tornasse qualcuno dal passato e mi chiedesse: 'ho solo due ore, mostrami la cosa migliore che avete fatto voi umani in questi secoli', non lo porterei in un museo, né in una chiesa: lo porterei con me in una impresa, in una fabbrica, dove la gente sta dando vita ad una grande azione collettiva generativa (e poi salutandolo gli leggerei una poesia che non conosce: l’arte è una alta forma di lavoro). Abbiamo sconfitto mille malattie, siamo arrivati fino a Marte, semplicemente lavorando, e lavorando molto. E se domani riusciremo a sconfiggere le altre mille malattie, a sfamare tutti, a far studiare bene tutti i bambini e i giovani della terra, lo faremo soltanto lavorando, lavorando molto, lavorando meglio, lavorando insieme. Noi esseri umani, non sappiamo fare di meglio sotto il sole. Se, allora, dovessimo smettere di lavorare, o lavorare troppo poco, il vero rischio è che orienteremo le nostre energie in attività meno appassionanti, serie, responsabili, difficili, sfidanti, del lavoro, e, forse, riprenderemo ad esercitarci troppo nell’arte della guerra.
Non è vero che il lavoro finirà. Chi lo dice sottovaluta l’intelligenza, la creatività e l’amore delle donne e degli uomini. Faremo lavori diversi, molti più servizi e meno catene di montaggio, ma continueremo a lavorare, a cooperare a volerci bene lavorando. E domani benediremo la tecnologia che ci ha liberato da lavori poco interessanti per poterne fare di migliori. Siamo stati capaci di produrre macchine e robot così intelligenti da poter fare (quasi) a meno di noi, perché abbiamo lavorato molto, insieme, e abbiamo messo nel lavoro la nostra intelligenza migliore. Finché ci sarà qualcuno che si inventerà qualcosa per soddisfare il bisogno di un altro, finché creeremo occasioni sempre nuove di mutuo vantaggio, il lavoro non finirà. E la nostra vera ricchezza delle nazioni continuerà ad essere la somma dei rapporti mutuamente vantaggiosi che riusciamo a immaginare e poi a realizzare. Finché ci guarderemo gli uni gli altri come portatori di bisogni e di desideri non ancora espressi, e utilizzeremo la nostra meravigliosa intelligenza e il nostro amore creativo, ci sarà lavoro: per tanti, forse per tutti.
Lavoreremo diversamente, ma continueremo a lavorare. Non abbiamo niente di meglio da fare. Continueremo ad esseri fondati sul lavoro, e sul lavoro a fondare la nostra democrazia.
(Si conclude la serie di interventi dedicati al tema del lavoro in vista della Settimana sociale dei cattolici che si aprirà giovedì 26 ottobre a Cagliari. Tutti gli articoli sono stati pubblicati il giovedì a partire dal 22 giugno e sono consultabili sul nostro sito)