Se si incontrano imprenditori o intellettuali, religiosi o sportivi in trasferta al di fuori dei propri confini, essi difficilmente tesseranno le lodi dei loro potenti leader, apparentemente impegnati a ristabilire la prosperità e il prestigio dei rispettivi Paesi. Stiamo parlando di viaggiatori provenienti dagli Stati Uniti e della Russia, che di Trump e Putin tendono a non vantarsi. Qualcosa di diverso forse si troverà nei giudizi di cittadini cinesi sul presidente Xi Jinping, che comunque avranno qualche difficoltà nel giustificare non solo il più visibile pugno di ferro su Hong Kong, ma soprattutto la segreta e terribile repressione degli uighuri, della quale stanno emergendo in queste settimane la proporzione e la durezza.
Nei giorni in cui il Parlamento di Strasburgo ha dato finalmente il via libera alla nuova commissione di Ursula von der Leyen possiamo anche permetterci qualche paragone a noi favorevole. Il ritardo nell’entrata in carica dell’"esecutivo" europeo dipende dal severo scrutinio svolto dal ramo legislativo sui candidati ai 27 dicasteri.
Oltre a Romania e Ungheria, la stessa Francia ha dovuto rinunciare alla sua prima scelta, Sylvie Goulard, bocciata per il passato uso dei rimborsi da deputato e per un precedente conflitto di interessi. Criteri rigorosi che avrebbero certamente impedito all’attuale capo della Casa Bianca di entrare nella squadra dei commissari Ue, per non parlare dello zar del Cremlino e persino del reis turco Erdogan e del presidente brasiliano Bolsonaro, per citare solo nazioni del G20.
Questo significa che l’Unione Europea ha la migliore architettura istituzionale e il migliore personale dirigente in assoluto? La risposta è probabilmente no. Tuttavia, i tanti inciampi e i molti impacci che l’Europa ha mostrato in anni recenti non devono farci perdere di vista l’opportunità che essa continua a rappresentare. Non ci si può sempre cullare nei ricordi dei successi andati (su ciò hanno ragione i critici): per questo ci sono la storia e i monumenti.
Ma se guardiamo avanti – e noi italiani dobbiamo farlo dalla nostra prospettiva – sembra che il nostro destino non possa che essere europeo e che, pertanto, la scelta più saggia sia quella di contribuire in prima persona e da protagonisti al successo dell’agenda proposta da von der Leyen. La guerra dei dazi tra Washington e Pechino e la determinazione dell’America di Trump "a tornare grande" economicamente, anche a spese degli alleati di lunga data, non promette nulla di buono per il nostro sistema sostenuto dall’export. E in questo senso, si può solo sperare che i democratici Usa convergano su un candidato forte e credibile per le elezioni del novembre 2020 (eventualità per ora non all’orizzonte).
La Nato cui Macron ha diagnosticato in modo tranchant «la morte cerebrale» potrebbe presto sfilacciarsi ulteriormente, lasciandoci senza quell’ombrello che perfino il segretario del Pci Berlinguer, nel pieno della Guerra fredda, giunse a ritenere preferibile a ogni altro. Quale alterativa avremmo, se non una forza armata europea che unisca le capacità di tutti i Paesi membri e inglobi la forza nucleare di Parigi (e in tal caso ci mancherà il contributo decisivo di Londra)?
Il cambiamento climatico cui oggi, forse esagerando dopo tanto negazionismo, si imputa persino la caduta di un singolo viadotto non potrà essere contrastato nemmeno a livello di un intero continente: si tratta di un fenomeno globale. Ma solo una Ue coesa e determinata è in grado di dare il passo al mondo e provare a riportare al tavolo dell’ambiente gli Stati Uniti e le altre nazioni che ancora resistono a una non più rinviabile svolta verde e sostenibile.
Infine, limitandoci a questi pochi grandi capitoli, gli ultimi dati sulla natalità italiana, oltre a essere sconfortanti di per sé, prospettano il fosco futuro di una società che avrà pensionati da mantenere e da curare, con pochi giovani attivi a sostenere il sistema di welfare, mentre la risorsa costituita dagli immigrati è attualmente avversata da una buona metà della rappresentanza politica e da una parte consistente dell’opinione pubblica. Unicamente un’Unione che diventi più interdipendente anche sul versante delle politiche sociali potrà dare sollievo alla situazione che diventerebbe altrimenti difficilmente gestibile, se non al prezzo di un puro impoverimento.
Sono scenari che si delineano su un periodo medio-lungo e l’adesione totale alla prospettiva del "qui e ora" di una diretta via Facebook o delle elezioni locali del mese prossimo impediscono di coglierne la portata. L’Europa può e deve fare un balzo in avanti con la spinta di tutti. I sovranisti che guardano a un passato che non ritornerà e sono privi di una proposta credibile per l’avvenire hanno tuttavia buon gioco nell’usare la Ue attuale come polo dialettico per loro prezioso: dare la colpa a Bruxelles, entità esterna e opaca, di tutti i mali nazionali e capitalizzare così un consenso di breve durata. Le elezioni di maggio ne hanno segnato uno stop, ma il sentimento di scetticismo e ostilità che incarnano verso l’Unione non è scomparso. E può riguadagnare spazio, se si sprecherà un’altra legislatura.
L’impatto dell’uscita della Gran Bretagna si misurerà negli anni e ci vorrà tempo per determinare il bilancio inglese di tale scelta. Nel frattempo, nessun altro Paese tenterà questa strada. Ciò che ora serve è la consapevolezza di tutti (comprese la Germania che vede scricchiolare alcuni pilastri della sua crescita e la Francia che fa i conti con la difficoltà di mantenere da sola le zone di influenza extraeuropee) rispetto alla sola via disponibile verso un futuro almeno altrettanto roseo e pacifico quanto sono stati gli scorsi decenni, in un mondo oggi sempre più multipolare e irrequieto.
Un’Europa che rilanci una crescita equilibrata senza eccessivi rigorismi, che sappia finalmente coordinare e organizzare l’accoglienza e i flussi migratori e mostri a livello ufficiale un volto più sorridente e inclusivo può porre le basi per quella ripartenza tanto retoricamente auspicata quanto poi sabotata da interessi ristretti e sguardi miopi. Quell’Europa che, come ha richiamato papa Francesco, è «fatta di persone» sull’esempio di san Benedetto, uno dei giganti della cultura cristiana alla base di quella fioritura che, anche nelle sue declinazioni laiche, non ha smesso di rinnovarsi. Un destino, quindi, che è un compito. Per noi e per una politica saggia e lungimirante.