Tre giganti del continente si trovano ora a fronteggiare una crisi demografica senza precedenti, destinata ad avere profonde conseguenze sul loro futuro. Si può vedere nel fenomeno in corso il tracollo della comune ispirazione confuciana e una reazione delle donne (l’«altra metà del cielo», come le definì Mao) a un’atavica condizione di subalternità. In gioco anche economia, produttività, forze armate e peso politico rispetto ad altre potenze dell’area, come l’India
Cina, Corea del Sud e Giappone condividono molto quanto a caratteristiche e rapidità del loro sviluppo rispettivamente negli anni 80, 70 e 60. Questi Paesi hanno anche condiviso politiche demografiche inizialmente espansive e poi sempre più restrittive, fino a ritrovarsi – altro carattere comune – davanti a uno stallo e di conseguenza a un rapido invecchiamento della popolazione che, proprio per le caratteristiche dei loro apparati produttivi, rischia di limitarne pesantemente le prospettive. Nel 2010 – anno in cui è stato possibile un confronto – gli ultrasessantacinquenni nella Repubblica popolare cinese, in Giappone e in Corea del Sud erano rispettivamente l’8,87, il 23,1 e il 13 per cento della popolazione. Utile il confronto con il 2000, quando erano stati rispettivamente il 6,96, il 17,3 e il 7,3 per cento.
Ancor più che i dati percentuali, colpisce la rapidità del fenomeno e la sua irreversibilità apparente. Il tasso di invecchiamento in Corea del Sud e Giappone è molto più rapido che in Cina, addirittura più del doppio, ma quanto a velocità di invecchiamento la Corea ha il primato in Estremo Oriente. Se ci sono voluti 25 anni perché il Giappone passasse nell’ultimo quarto del XX secolo dal 7 al 14 per cento di popolazione anziana, questo tempo è sceso a 24 anni in Cina e 17 in Corea del Sud. Le nuove tendenze demografiche si sono evidenziate prima in Giappone, a partire dagli anni ’70, mentre negli altri due Paesi hanno cominciato a manifestarsi all’avvio del nuovo millennio. Proprio per questo, però, il Giappone è diventato anche il laboratorio in cui sperimentare provvedimenti utili, da un lato, a rilanciare le nascite e, dall’altro, a garantire agli anziani maggiori possibilità di permanenza nel mondo del lavoro (fino ai 70 anni nonostante l’età del pensionamento legale resti fissata in maggioranza a 60 anni).
D’altra parte, le caratteristiche sociali, culturali e politiche, le diverse situazioni di welfare dei tre Paesi estremo orientali non consentono generalizzazioni e l’applicazione automatica di soluzioni comuni. Su un piano diverso, si potrebbe vedere nella questione demografica un segnale di crisi della comune ispirazione confuciana, una reazione della parte femminile, 'l’altra metà del cielo' del Mao-pensiero che, ignorata da ogni ideologia, sempre più tende a rifiutare ruoli e convenzioni imposti e che della prole fa una scelta personale rifiutando di assegnarle un significato solo economico o di continuità sociale. Giappone e Corea del Sud, connessi da una storia conflittuale ma anche da proficui scambi culturali, oggi rivali economici ma alleati strategici, condividono in parte le tendenze demografiche. Sicura- mente con differenze sostanziali rispetto al vicino cinese. Per entrambi, l’impegno a contrastare il calo della popolazione nei prossimi decenni sarà decisivo anche sul piano identitario, maggiormente sentito in Giappone rispetto alla Corea del Sud che confina con un Nord etnicamente omogeneo. Il declino interesserà praticamente ogni aspetto della società, dai bilanci nazionali alla consistenza delle forze armate, e per questo entrambi i Paesi dovranno affrontare in concreto le ragioni sottostanti il calo demografico. Una maggiore partecipazione femminile al mondo del lavoro è tra le principali, a essa è connesso il crescente peso economico posto sulle famiglie da un loro incremento numerico.
A partire dall'istruzione, responsabile in modo consistente, secondo gli esperti in Corea del Sud, del crollo dei risparmi familiari dal 19 per cento nel 1988 al 4 per cento nel 2012. In un contesto di crescita esponenziale della popolazione anziana rispetto a quella 'produttiva', nei due vicini estremo-orientali si concretizzerà entro pochi anni il problematico rapporto tra meno di due lavoratori e un pensionato. D’altra parte, le politiche attuali e quelle in preparazione sembrano riconoscere l’impossibilità del ritorno alla situazione precedente. Tokyo ha speso vanamente decine di miliardi di dollari per cercare di riportare il tasso di natalità da 1,4 a 1,8. Seul sta investendo pesantemente per incrementare lo stesso tasso dall’1,2 per cento attuale all’1,7 entro il 2030. Per entrambi, comunque un risultato lontano dal tasso di sostituzione di 2,1 figli per donna in età fertile che il Giappone non ha più visto dal 1974. Nel Paese del Sol Levante la popolazione economicamente attiva (tra i 15 e i 64 anni) ha iniziato a ridursi dalla fine degli anni Novanta, scendendo da 87,2 milioni nel 1995 ai 68 milioni previsti nel 2030. In Corea del Sud una contrazione della forzalavoro è iniziata solo di recente, dopo il picco di 37 milioni nel 2016, e si prevede che dal 2024 sarà nell’ordine di un milione all’anno. Preceduto dal sorpasso delle morti sulle nascite nel 2028, il declino della popolazione complessiva sudcoreana, oggi di 52 milioni, inizierà a manifestarsi dal 2031. In entrambi i Paesi la situazione ha acceso un dibattito sull’immigrazione che, se ritenuta utile o funzionale a un certo livello, non viene individuata come decisiva per infoltire i ranghi della forza-lavoro in assottigliamento. Si preferisce vedere nell’arrivo controllato di immigrati un elemento che potrà contribuire con altri a contrastare la decrescita demografica e le sue conseguenza sull’economia piuttosto che un fattore strategico e decisivo per il futuro di un’intera nazione. Nella grande Cina per la prima volta in un settantennio nel 2018 non vi è stato un incremento della popolazione, spingendo gli osservatori a parlare di una vera crisi demografica. I cinesi si avvicinano al culmine di 1,41 miliardi nel 2023, con un anticipo – secondo recenti studi – di cinque anni rispetto a quanto previsto dai pianificatori, e si avviano a essere superati dall’India entro il decennio. Una situazione che finirà per intersecarsi inevitabilmente con le dinamiche di una economia in ristrutturazione, accentuandone le difficoltà. Fino al punto da far ipotizzare il collasso del sistema pensionistico attuale nel 2035. La caratteristica 'politica del figlio unico' ha segnato per un quarantennio la vita delle famiglie cinesi, cercando ufficialmente di garantire la compatibilità tra crescita demografica e progresso.
A un prezzo altissimo, sul piano individuale e collettivo, e alla fine con un risultato forse inatteso ma in linea con quello dei Paesi prossimi all’uscita dal sottosviluppo. Il brusco dietrofront ha portato dal 2016 ad aprire ai due figli per coppia e poi, di fatto, alla piena liberalizzazione della prole. Senza tuttavia con questo convincere i cinesi che 'fare figli è bello' dopo anni di pressioni e punizioni, e alla fine cozzando anzitutto contro quei nuovi stili di vita e quella diversa coscienza femminile che sono stati anche conseguenza del 'socialismo di mercato', ovvero dell’idea che, piuttosto, 'arricchirsi è bello' indipendentemente dalle conseguenze che non siano una minaccia diretto alla leadership comunista. Non a caso, le nascite hanno visto un calo di 2,5 milioni nel 2018 rispetto al 2017, contrariamente alle previsioni di un aumento di 790mila unità. Una tendenza che per diversi esperti potrebbe essere irreversibile per vari fattori. Tra questi, determinante, è la riluttanza delle coppie ad avere più figli per le conseguenze economiche sulla famiglia e per il numero sempre più ridotto di donne in età fertile che si prevede calerà del 39 per cento nel prossimo decennio.