Erlin Mejia Andino durante le proteste di piazza in Honduras
“Le autorità svedesi sostengono che il governo dell’Honduras può garantire la mia sicurezza, ma è una follia: è da membri dello stesso governo che sono stato minacciato di morte”. La voce di Erlin Mejia Andino arriva ad Avvenire dalla Svezia. È qui che un anno e mezzo fa il giovane attivista politico honduregno, noto nel suo Paese per le sue battaglie a favore dei diritti umani e dei diritti dei disabili e membro del partito di sinistra Libre, ha trovato rifugio insieme a sei membri della sua famiglia. Un viaggio sponsorizzato dall’Unione Europea tramite l'Ong Oxfam, “ma da qui a un mese – spiega Mejia - rischiamo di dover tornare tutti a vivere nel pericolo nel nostro Paese di origine”.
Nel 2015 Mejia era in prima fila tra gli Indignados che scendevano in piazza in Honduras per chiedere le dimissioni del governo e del presidente Juan Orlando Hernández, accusato da più parti di corruzione e di autoritarismo. “Sono stato anche malmenato dalla polizia e uomini dei servizi mi hanno più volte detto che mi avrebbero ucciso se avessi continuato”, spiega oggi. Alle mobilitazioni e alle protesta il governo aveva infatti risposto con una dura repressione.
Qualche tempo dopo, ottenuto rifugio in Svezia, Mejia denuncia di aver lasciato l’Honduras perché una rete che opera nella tratta di esseri umani aveva rapito nell’ottobre 2016 la sorella Ana, all’epoca dei fatti appena quindicenne, sequestrata e abusata per due giorni. Un sequestro che, secondo Mejia, era stato anche una sorta di ritorsione per il suo impegno politico.
Nella denuncia ufficiale, compilata a Città del Messico il 25 aprile 2018 e inviata al procuratore speciale per i crimini di violenza contro le donne e la tratta di persone in Messico, l’attivista parla di una rete che “opera da Messico, America Centrale, Venezuela, Colombia, Perù e Cile”. Questa rete, spiegava Mejia, “funziona a livello nazionale attraverso una fondazione che apparentemente aiuta i bambini sordi ma è una copertura: i bambini sordi li rapiscono, li spediscono in città mettendoli a elemosinare, mentre le ragazze vengono vendute nelle reti di prostituzione in Guatemala, Messico ed El Salvador”. Nella sua denuncia, l’attivista indicava anche nomi e cognomi di diverse persone importanti appartenenti a questa rete. Persone che, con il suo rimpatrio in Honduras, potrebbero costituire, secondo Mejia, una seria minaccia per lui e la sua famiglia.
In un dispositivo datato 28 novembre, il Consiglio per l’immigrazione svedese, l’ente che valuta le domande di asilo e di permesso di soggiorno per gli stranieri, ha però rigettato la richiesta di Mejia, sostenendo che “il trattamento a cui è stato sottoposto” l’attivista “non raggiunge l’intensità necessaria per essere definibile come persecuzione”. Al ritorno nel suo Paese, insomma, secondo le autorità svedesi Mejia non rischierebbe la morte. Inoltre, “secondo le informazioni disponibili, la libertà di espressione è protetta dalla legge in Honduras. Le elezioni più recenti si sono svolte nel novembre 2017 e sono state giudicate democraticamente secondo osservatori internazionali, anche se sono state segnalate alcune carenze”.
In realtà diverse organizzazioni come Human Rights Watch hanno parlato di "forti indizi di frode" per le elezioni del 2017 e di “manipolazione dei risultati”. Centinaia le persone allora arrestate nelle le manifestazioni di protesta, diversi i morti. Amnesty International ha parlato di "repressione brutale" e ha definito l'Honduras "uno dei Paesi più pericolosi per i difensori dei diritti umani".
Le autorità svedesi - contro la cui decisione il legale di Mejia presenterà oggi appello - sostengono però che “esiste una certa protezione del governo in Honduras”, prima comunque di ammettere, nel rigettare la domanda di protezione dell'attivista, che le autorità honduregne “sono ostacolate da problemi e lo stato di diritto in Honduras è frenato da un'estesa corruzione”, il tutto traducendosi “in una grande impunità”. Ciononostante, per l’agenzia di Stoccolma Mejia e famiglia possono, anzi devono far ritorno in patria entro quattro settimane. Evidentemente a loro rischio e pericolo.