domenica 30 marzo 2025
La stilista italo-haitiana Stella Jean costruisce ponti tra culture diverse. «Haiti non può lasciare indifferenti, ti cattura con la sua carica mistica, artistica, storica. Ha fatto cose epocali»
Le divise di Haiti alle Olimpiadi 2024

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La sua storia ha incrociato i giganti della moda italiana, da Franca Sozzani a Silvia Fendi a Giorgio Armani. Le sue creazioni sfilano sulle passerelle e lei è la prima stilista italiana nera. Si chiama Stella Jean e nelle sue collezioni porta sempre Haiti. Nata a Roma da papà torinese e mamma haitiana, ama definirsi «pontiera», cioè colei che «costruisce ponti» tra culture diverse. Lo fa con i suoi vestiti, ma anche con progetti di cooperazione internazionale attivi in diversi Paesi. Parlare con lei di Haiti significa avere una prospettiva inedita. Ce la racconta, qui.

Stella Jean, qual è il suo legame con Haiti?

Ho vissuto ad Haiti dai 2 ai 6 anni. Mia mamma, haitiana, è sempre stata estremamente fiera della sua origine e così, sin da bambine, ha imposto a me e a mia sorella lo studio della storia e della cultura haitiane. Ci teneva che conoscessimo tutti gli artisti haitiani di passaggio in Italia, ricordo tanti incontri culturali. Oggi credo che Haiti sia un Paese estremamente potente dal punto di vista emozionale: non puoi trattarlo con indifferenza perché ti impone la sua carica emotiva, mistica, artistica, storica, culturale. A volte questa mia radice è stata talmente invadente che ho tentato di contenerla, ho provato a distanziarmene. Ma senza successo: Haiti inevitabilmente ti richiama all’ordine. Sento un affetto veramente prepotente per quest’isola, a partire dai fatti che l’hanno attraversata, dalle persone che la abitano, dalle donne. Ad Haiti la donna è la colonna portante della famiglia e della società. Anche nei periodi più complessi, le donne rimangono al loro posto, con grande senso di orgoglio e responsabilità. Il loro attaccamento al Paese è veramente forte.

Haiti è parte fondamentale anche delle sue creazioni. Come nasce questa idea?

Era circa il 2010, in quegli anni lavoravo come modella ma sapevo di voler fare la stilista. La prima grande opportunità arrivò con un bando di Vogue Italia per i giovani talenti della moda. Io mandai la mia richiesta, estremamente fiduciosa. Dopo sei mesi ricevetti una raccomandata: ero stata bocciata. Mi candidai di nuovo, venni bocciata una seconda volta. Al terzo tentativo, la talent scout del concorso mi chiamò dicendo che aveva capito che i “no” non mi avrebbero fermata e mi chiese di portare al concorso qualcosa che fosse veramente mio. Quel colloquio fece scattare qualcosa dentro di me. Realizzai che la mia multiculturalità, a tratti difficile e dolorosa, rappresentava anche la cosa più preziosa che avevo. Così portai la mia prima collezione che univa linee della sartoria italiana, come le camicie a righe di mio padre, e le stampe haitiane. Dopo tante bocciature mi ammisero, e lì iniziò il mio percorso come stilista.

In Europa, Haiti è un tema rimosso. Non si parla dell’enorme debito che le ha imposto la Francia e delle sue conseguenze. Perché, secondo lei?

Per rispondere, le racconto un episodio. Come dicevo prima, in casa abbiamo dovuto studiare la storia di Haiti sin da piccole. Dovevamo capire quanto fosse importante quella mezza isola che aveva cambiato la storia del mondo: Haiti è la prima repubblica nera, ha aiutato altri a ottenere la propria indipendenza, ha fatto cose epocali. Io però non mi spiegavo come mai, se quella terra era davvero così importante, non venisse raccontata sui miei libri di storia, né quelli italiani, né quelli francesi. Lo domandai a mia mamma. Lei mi disse: «Non chiedere al leone la storia di come gli è scappato il topo». Si riferiva ovviamente alla conquista dell’indipendenza dalla Francia. In quel momento capii che era proprio così. La storia di Haiti viene sempre minimizzata o stigmatizzata, il Paese è stato messo in un cono di invisibilità e l’Occidente lavora perché ci resti. Eppure io credo che capire la storia di questo Paese possa essere un beneficio per tutti. Non solo perché la storia va rispettata, ma perché al bagaglio culturale di ciascuno manca una pagina molto importante. Haiti è un caso eccezionale: un Paese vincitore condannato alla bancarotta a vita. La leggo come una somma di immoralità, anche perché tutto questo accadde in un momento in cui “libertà, uguaglianza, fraternità” dominavano la scena in Francia, proprio il Paese che ha stretto così tanto il cappio al collo di Haiti.

Qual è la sua più grande speranza per Haiti?

Che muti lo sguardo con lui la si osserva. Se continuiamo a fermarci al velo di pietà e pietismo che inevitabilmente accompagna qualsiasi notizia, ci perdiamo tutti. Questo Paese è veramente un pozzo di cultura. Tenere su Haiti uno sguardo perennemente assistenzialista non serve al popolo. Ci vorrebbe un approccio diverso, più curiosità. Haiti si merita di essere guardata da altri punti di vista, e invece la conosciamo per una serie di motivi tutti sbagliati.

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A proposito di buone notizie. Lei ha creato le divise per le Olimpiadi 2024 degli atleti haitiani e queste state premiate per la loro bellezza…

Sì, le divise sono state dichiarate tra le più belle della storia, e sono salite sul podio delle Olimpiadi, a fronte di 212 delegazioni presenti. Sono entrate a far parte del museo olimpico di Losanna e vengono esposte in diversi Paesi, ora sono a New York. Quando hai veramente poche possibilità di parlare del Paese in modo positivo, e hai soltanto qualche metro di stoffa per dire tutto… È una sfida, anche perché avevamo un budget di poche migliaia di euro, rispetto ai milioni degli altri. Ma lo abbiamo fatto! Abbiamo incluso nelle divise il dipinto di un grandissimo artista haitiano, Philippe Dodard. Sapevamo che ci saremmo giocati tutto in quei pochi secondi in cui gli atleti vengono ripresi dalle videocamere internazionali. E ha funzionato! Quelle divise sono state uno strumento potentissimo per accendere una luce positiva su Haiti. È stato un momento molto importante, anche dal punto di vista simbolico: essere i più fragili, i più vulnerabili, non significa essere condannati a rimanerlo a vita.

Lei è la prima stilista nera in Italia. Come ha vissuto questo primato?

All’inizio c’è stato un moto di orgoglio, ero l’unica. Ma dopo un po’, la sensazione è cambiata. Quando apri gli occhi e vedi che la nostra società sta cambiando e sta diventando sempre più multiculturale, allora realizzi che forse non sei stata la più brava, ma la più fortunata. Vedi tanti intorno a te a cui non è stato concesso di passare certe porte, anche se lo meriterebbero in egual misura. E dunque capisci che, oltre al tuo orgoglio, hai anche la responsabilità di aprire quella porta per tutti gli altri che hanno lo stesso diritto ad entrare.


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