domenica 30 marzo 2025
La capitale è ormai frazionata da barriere di ogni genere. Che sono diventate l'unica forma di protezione. Per entrare a Bobin, che ha costruito tre cancelli negli ultimi 12 mesi, si paga un pedaggio
A Port-au-Prince la gente alza barricate, recinzioni o addirittura muri e cancelli per impedire le incursioni delle gang

A Port-au-Prince la gente alza barricate, recinzioni o addirittura muri e cancelli per impedire le incursioni delle gang - Ansa

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«Siamo soli. Che altra scelta ci resta per non morire se non alzare le barriere?». Le barriere. Molto più di uno sbarramento costruito con mattoni e cemento o improvvisato con lamiere e copertoni o carcasse d’auto. Sono l’ultima unità di misura della guerra del tutti contro tutti che dilania Port-au-Prince. Ci si imbatte in loro di continuo. Spuntano ovunque senza preavviso. Perentorie. «Il progetto non si fermerà. Tutti devono partecipare», si legge sulla prima delle tre cancellate successive che a un tratto, tagliano Peguiville road, cingendo in un abbraccio metallico la comunità di Bobin. Sotto le parole creole, dipinte in un azzurro rassicurante, sono indicate le tariffe di ogni “contributo” per il passaggio del valico. Si va da un minimo di 50 gourdes per le moto – equivalenti a circa 30 centesimi di dollaro – alle 500 gourdes (3,5 dollari) richieste per le poche auto in circolazione. Cifre tutt’altro che abbordabili per chi – come l’80 per cento degli haitiani – sopravvive con meno di due dollari al giorno. «Non possiamo fare altrimenti – spiega Jilis a mo’ di giustificazione mentre un motociclista fa cadere le banconote spiegazzate nel secchio di plastica dove vengono raccimolati i pedaggi –. Ci occorrono più barriere».

Fino a un anno fa, la strada di Bobin era aperta. Poi, lo scorso marzo, appena fuggito dal carcere, il boss Ernst Julme alias Ti Greg ha cercato di riconquistare la sua roccaforte, perduta con l’arresto nel 2021, prima di venire ucciso dagli agenti. La battaglia è stata feroce. Per settimane, gli ottomila residenti sono rimasti intrappolati nel fuoco incrociato tra la gang e la polizia che cercava di sbarrarle il passo verso Petionville. Arrampicato sulle colline, questo quartiere residenziale è l’ultimo brandello di metropoli sfuggito finora al controllo delle bande. Non è un caso. Là ci sono l’hotel Karibe, quartier generale delle Nazioni Unite, le principali ambasciate con relativi appartamenti dei pochi stranieri rimasti e soprattutto le ville di quell’uno per cento di popolazione che detiene di fatto il monopolio politico ed economico dell’isola. L’oligarchia, la chiamano. Una manciata di non più di venti famiglie dai cognomi europei o mediorientali. «Questi ultimi – spiega Pierre Esperance, sociologo e direttore del National human rights defence network – discendono dai siro-libanesi giunti alla fine dell’Ottocento. Il secolo scorso scalarono la piramide sociale grazie al sostegno del dittatore Francois Duvalier alias Papa Doc, ansioso di indebolire l’élite locale». Da sempre, i “signori della collina” trincerano le proprie ricchezze dietro muri invalicabili, presidiati da guardie armate: un esercito privato di almeno 75mila persone, distribuite in un centinaio di compagnie. L’industria della sicurezza ha sostituito le milizie che, dal ritorno della democrazia, nel 1986, gli oligarchi hanno impiegato – come sostengono gli analisti e la stessa Onu - per acquisire consensi elettorali e mantenere il controllo di importazioni e produzione economica nazionale. Le circa 200 bande che “governano” Port-au-Prince ne sono l’evoluzione: grazie ai soldi accumulati si sono pian piano rese autonome dagli sponsor anche se i legami restano, nonostante la classe dirigente neghi.

Di fronte al caos dilagante, l’élite ha moltiplicato truppe e muri. Nell’ultimo anno, però, la tendenza a “fare da sé” si è tragicamente “democratizzata”. I poveri si armano e si blindano in modo anarchico e auto-organizzato, occludendo vie di comunicazione a casaccio, non per proteggere averi inesistenti bensì per cercare di riparare i propri corpi ed esistenze dalla guerra tutti contro tutti che dilania la città e la nazione. Le istituzioni non possono difenderli. I 15mila poliziotti in servizio sono del tutto insufficienti rispetto a una popolazione di 12 milioni di persone. Nessuno poi sa quanti siano effettivamente attivi. «Certa, invece, la mancanza di risorse ed equipaggiamenti, più volte certificata dalle Nazioni Unite», aggiunge il sociologo Esperance. Le gang, al contrario, sempre in base a fonti Onu, dispongono di un arsenale di almeno mezzo milione di armi, inclusi Kalashnikov e Uzi di ultima generazione, provenienti all’80 per cento dagli Usa. Per contrastarne l’avanzata, nella primavera 2023, un gruppo di civili ha, non lontano da Bobin, ha creato la prima brigata di autodifesa: “Bwa Kale”, cioè “coloro che levigano il legno”, metafora per indicare quanti si fanno giustizia con le proprie mani. Una rivolta spontanea all’inizio, replicata negli altri quartieri e combattuta con machete e coltelli. In breve, però, grazie ai fucili sottratti ai banditi e, soprattutto, al sostegno della polizia che appalta loro il lavoro sporco lasciandogli mano libera, i Bwa Kale sono diventate formazioni paramilitari responsabili di centinaia e centinaia di brutali esecuzioni extragiudiziali e linciaggi di chiunque fosse sospettato, con più o meno fondamento, di appartenere a una banda.

Nel frattempo sono comparse le barriere. Le prime dieci le ha fatte edificare il super boss Jimmy Chérizier alias Barbecue a Delmas 2, cuore di Port-au-Prince, nei pressi del palazzo presidenziale e dalla cattedrale, per proteggere i propri dominii dalla polizia. Brigate di autodifesa e cittadini hanno pensato di fare lo stesso nelle proprie comunità, in funzione anti-gang stavolta. In pratica spunta una nuova recinzione ogni mese. Un nuovo ostacolo fisico alla libertà di circolazione che riflette e acuisce i confini invisibili sempre più angusti imposti dalle gang agli abitanti. Perfino un’arteria cruciale come “airport highway”, la via dell’aeroporto, è off limits. «È l’unico modo per sentirci un po’ più al sicuro», dice Jilis, che nella vita fa l’agente di polizia. Si limita a sollevare le spalle quando gli si domanda se faccia parte di Bwa Kale ma dice, con una punta di orgoglio, di essere il “titolare” della barriera. «All’inizio abbiamo fatto una barricata con sacchi di sabbia e copertoni. Dopo l’ultimo attacco delle gang, ci siamo riuniti, ne abbiamo parlato e abbiamo deciso insieme. Ogni famiglia ha messo l’equivalente di 7 dollari». Così è nato il primo cancello che divide la comunità dalla strada principale. Poi, qualche centinaio di metri oltre, un secondo sbarramento. Il terzo, a ridosso delle casupole più interne, appena abbozzato. «Per questo abbiamo imposto i pedaggi. Ma solo per chi viene da fuori o deve uscire dopo l’orario di chiusura».

Alle 23 i cancelli vengono blindati per riaprire l’indomani alle 5. La notte è tempo di massima attività delle gang. Al tramonto le strade si svuotano e inizia la lunga veglia degli abitanti, cullati dal sibilo ininterrotto degli spari. Troppo pericoloso aprire un varco. Dalle comunità, a volte, non riescono a uscire nemmeno quanti possono pagare. «È che finiamo il turno e non sempre ci trovano», minimizza Jocelyne, 30 anni, uno dei “guardiani” della barriera. Qualche settimana fa, i parenti di un malato quasi in agonia hanno dovuto trasportarlo sulle spalle attraverso i campi, nella speranza di raggiungere il dispensario, gli unici presidi medici rimasti a Port-au-Prince, a parte il sovraffollato ospedale La Paix. «Ma non accade così spesso», precisa il vigilante, di turno al gabbiotto al pomeriggio in cambio «di un piccolo aiuto». Intorno alla barriera ruota un microcosmo complesso fatto di gerarchie, transazioni e rapporti di potere. L’ennesima miniatura di Stato in un Paese senza Stato dove muri eretti dalla disperazione sono l’unico argine alla guerra. Una distopia del presente che il mondo sta costruendo. Barriera dopo barriera.
(2. Continua)


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