giovedì 6 novembre 2014
Il presidente è da solo contro il Congresso in mano ai repubblicani.
L'America consegna Obama al passato di G. Ferrari
IL PUNTO Tutti i rebus dell'“anatra zoppa”
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Persino l’Empire State building era rosso, ieri sera, come la valanga di Stati passata in mano repubblicana che ha travolto il partito democratico. Se al Grand Old Party bastavano infatti sei nuovi seggi per conquistare il controllo del Senato, i conservatori ne hanno strappati ai liberal almeno sette (ma potrebbero aumentare con il conteggio degli ultimi voti e il ballottaggio in Louisiana). Alla Camera, il Gop ha aggiunto circa 14 deputati, arrivando a 246 dei 435 seggi, la più grande maggioranza dai tempi della Seconda Guerra mondiale. Oltre ad aver conquistato il controllo di entrambe le Camere, i repubblicani hanno fatto man bassa anche delle cariche di governatore dei 36 Stati in lizza, conquistando vittorie inattese in roccheforti tradizionalmente democratiche come il Maryland, il Massachusetts e persino nello Stato di Barack Obama, l’Illinois. Il presidente non ha nascosto la portata della batosta. «È lo scenario peggiore dai tempi di Eisenhower », ha ammesso. Poi, come già quattro anni fa, quando lo schieramento dell’asinello era emerso tartassato dalle urne (anche se aveva mantenuto il Senato) il capo della Casa Bianca ha difeso le sue politiche. «Credo ancora in quello che dissi sei anni fa quando sono stato eletto. Non siamo repubblicani o democratici, siamo gli Stati Uniti d’America – ha detto –. Gli americani si aspettano che i politici si concentrino sulle ambizioni della gente. Dobbiamo far sentire loro che il terreno è solido sotto i loro piedi e che il futuro è sicuro ». Al nuovo Congresso Obama ha già fatto una richiesta: oltre 6 miliardi per combattere ebola e più fondi per la lotta allo Stato islamico (Is). In cambio ha fatto una promessa: «Sono ansioso di lavorare con il nuovo Congresso per rendere i prossimi due anni più produttivi possibile e far sentire a tutti gli effetti della ripresa economica. Se ci sono idee repubblicane che penso rendano le cose migliori per gli americani, sono disposto ad ascoltarle». È indubbio, infatti, che, nonostante i titoli dei giornali negli ultimi mesi siamo stati dominati da ebola, dall’Is e dalle tensioni con la Russia, per la quarta elezione consecutiva, l’economia è risultata essere la preoccupazione principale degli americani che si sono recati alle urne, che negli exit polls hanno descritto in maggioranza le loro condizioni finanziarie come «non molto buone» o «cattive». Lo Speaker repubblicano della Camera, John Boehner, sembra aver ricevuto il messaggio. Ringraziando gli elettori per la fiducia, ha sottolineato che «questo non è il momento di festeggiare, ma è il momento di iniziare a trovare soluzioni ai problemi del nostro Paese, a cominciare dall’economia». Boehner e i suoi colleghi, a partire dal probabile nuovo presidente del Senato Mitch Mc-Connell, sanno di avere una finestra di tempo limitata per dimostrare di non essere solo «il partito del no» e portare qualche risultato agli americani, prima che questi decidano di ribaltare di nuovo gli equilibri politici fra due anni. Un programma d’azione dettagliato non è stato presentato in campagna elettorale, ma i leader dell’elefantino non hanno nascosto di voler ridurre le spese pubbliche fino ad arrivare a un bilancio federale in pareggio, rivedere o persino abrogare la legge sulla sanità di Obama e riformare radicalmente il sistema di tassazione. È un’agenda politica che li mette però in una posizione precaria. Un terzo degli elettori che hanno scelto un candidato repubblicano, infatti, ha rivelato di essere «arrabbiato» con i membri del Congresso più conservatori. Metà ha detto di volere che gli immigrati senza documenti di soggiorno possano rimanere negli States, e due terzi si sono lamentati che il sistema economico e fiscale Usa privilegia i ricchi. Se vuole capitalizzare i consensi e sperare di prendere il posto di Obama nel 2016, dunque, il Gop ha bisogno di un messaggio che parli non solo alla sua base e di un leader che dia voce alla frustrazione popolare. Circolano già i nomi di Mitt Romney, che potrebbe tentare un’altra volta la corsa alla Casa Bianca, o di Jeb Bush, fratello dell’ex presidente George W., che ha portato alla vittoria in Arkansas il repubblicano Asa Hutchinson. I media Usa si sbilanciano anche su Paul Ryan del Wisconsin e sul governatore del New Jersey, Chris Christie. Ma manca una figura di spicco. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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