Perché mai questa ragazza, con tutti i posti dove poteva andare a fare un reportage, ha scelto proprio l’Iran? Non sapeva che là si rischia il carcere, si rischia la vita?». Riporto qui, dopo aver ricevuto la notizia straordinaria della liberazione di Cecilia Sala, la domanda posta a tavola, la sera di Capodanno, da un caro amico sempre attento ai temi di attualità. Ne è nato il classico dibattito da salotto, fatto al caldo del camino in uno chalet di montagna mentre lei, Cecilia – un pensiero fisso in questi giorni – a Teheran, in una minuscola cella del carcere di Evin, guardava il soffitto senza sapere che ore fossero del giorno, o della notte, senza sapere cosa ne sarebbe stato di lei il minuto successivo.
Perché mai, certi giornalisti, vanno nei posti dove si rischia la vita? Perché mai si ostinano a raccontare le guerre, i disastri, i soprusi andando il più vicino possibile a dove avvengono, non importa il pericolo che corrono? E perché lo fanno le giornaliste, che sono più esposte al pericolo e alla violenza in quanto donne, che possono diventare più facilmente prede e bersagli?
Perché devono. La risposta l’ha data Anna Politkovskaja qualche mese prima d’essere uccisa dai sicari di Putin nella sua Russia stritolata dalla dittatura e dal terrore, che lei non aveva mai smesso di raccontare sulla Novaja Gazeta: «Il compito d’un dottore è guarire i pazienti, il compito d’un cantante è cantare – diceva –. L’unico dovere d’un giornalista è scrivere quello che vede».
Un dovere, non una scelta.
Cecilia Sala era in Iran perché doveva vedere quel che alle donne sta succedendo in quel Paese per poi poterlo raccontarlo a noi, che da qui giudichiamo impossibile si possa essere uccise per una ciocca di capelli fuori dal velo o per il semplice desiderio di praticare uno sport. Prima di lei, altre giornaliste l’hanno raccontato: quelle iraniane sono state quasi tutte ingiustamente arrestate. Molte in carcere, e proprio a Evin, si trovano ancora. Altre hanno smesso di raccontare, per proteggere le proprie famiglie. Altre ancora sono scappate dal proprio Paese per continuare a farlo. Non importa al prezzo di quale violenza o intimidazione, o di quanti altri arresti, le donne iraniane devono essere ancora viste, devono essere ancora raccontate. Come quelle afghane, cancellate dai taleban e rinchiuse nelle proprie case; quelle ucraine e russe, devastate dalla guerra e dai lutti; quelle africane e quelle indiane, martoriate dalla povertà e dalle discriminazioni; quelle cinesi, quelle turche.
Il racconto sulle donne – che sono soprattutto le giornaliste donne a fare – consente anche a noi di vedere, di conoscere. Donne e uomini. È quel che serve per avere un’immagine del mondo il più vicina possibile alla realtà, e non a quello che ci scorre davanti sul rullo incessante dei social network (dove – sembra un beffa – nelle stesse ore in cui Cecilia Sala veniva liberata s’è deciso non ci sia più bisogno di alcun controllo, ciò che in gergo si chiama fact-checking, su ciò che viene raccontato). È quel che ci consente, soprattutto, di costruire per noi stesse e per noi stessi un pensiero e un’opinione liberi, consapevoli. In una parola, l’ossigeno che serve alla democrazia per respirare.
Qui di seguito, allora, qualche motivo in più per festeggiare tutti – non solo i giornalisti, la famiglia, i politici – la liberazione di Cecilia Sala, anche nelle nostre comode case, anche nel nostro piccolo mondo sicuro, così lontano dagli orrori dei regimi e delle guerre. Assieme a qualche auspicio.
Con Cecilia è stata liberata, una volta di nuovo, la possibilità di vedere e raccontare la realtà: non ci si accontenti (o non ci si accontenti più) di chi la riporta o di chi dice di conoscerla senza averla vista. Che riguardi la strada sotto casa, il quartiere di periferia della nostra città, la condizione dei migranti in Libia o quella dei bambini nella Striscia di Gaza.
Con Cecilia è stata liberata la forza delle donne e l’importanza della loro voce: non sia dimenticata la loro condizione, non siano lasciate sole nella lotta per affermare i propri diritti laddove vengono calpestati, si impegnino i governi e le autorità internazionali per il rilascio di tutte le giornaliste ingiustamente detenute per il solo fatto di aver fatto il loro lavoro e che, a differenza di Cecilia, si trovano ancora in cella.
Per Cecilia s’è mobilitato con forza straordinaria il governo italiano e un’altra donna, la premier Giorgia Meloni, che come donna e come madre s’è impegnata innanzi alla mamma della giornalista a riportarla a casa: ci si muova sempre – questo governo e ogni governo, per i sequestri, le tragedie e per ogni grande vicenda o dossier richieda l’intervento delle istituzioni – guardando alle persone e alle loro storie, all’umanità che sta dietro e che deve venire prima d’ogni decisione politica, pena lo sbiadimento dei valori che ci rendono fieri della storia del nostro Paese. Bentornata, Cecilia.