«Israele aveva un piano per attaccare direttamente il Libano». Quando il presidente Nabih Berri ci apre le porte, guidandoci di persona tra intarsi, decori e la solennità levantina della residenza ufficiale, a Tel Aviv era da poco piombato un drone scagliato da una base Houthi nello Yemen. In questa intervista l’uomo forte del Libano, l’86enne sciita da 32 anni a capo del Parlamento di Beirut, dopo un lungo silenzio accetta di rispondere alle domande di Avvenire, tra rivelazioni, ammissioni sulle difficoltà interne, denunce, e parole cariche di gratitudine per papa Francesco «che sempre invita a pregare per i poveri».
Di recente ha ricevuto il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, quali sono stati i temi forti?
Abbiamo a lungo parlato anche delle nostre difficoltà nel percorso per l’elezione del prossimo capo dello Stato. E nel mio cuore ci sono sempre le parole e la promessa del Papa.
Quale?
Il Santo Padre mi ha assicurato che una volta che il nostro Parlamento avrà eletto il nuovo presidente, verrà in Libano. Desideriamo che avvenga il prima possibile, nel solco della sua visita in Iraq e dell’incontro con l’ayatollah al-Sistani (la più importante guida degli sciiti, ndr).
Presidente, lei ha sempre escluso il rischio che il conflitto sul confine tra Israele e Libano possa coinvolgere anche il resto del Paese. È ancora di questo avviso?
La verità è che nell’area la situazione è molto pericolosa. E non solo per il Medio Oriente. Un ampliamento del conflitto in tutta la regione avrebbe serie ripercussioni anche in Europa, dove è ancora aperta la guerra in Ucraina, e nel mondo. Quello che sta succedendo a Gaza è inimmaginabile. È in corso un genocidio e io mi domando dove è finito tutto ciò che abbiamo imparato sui diritti umani. Tuttavia escludo che la guerra nel Sud del Libano possa coinvolgere tutto il Paese. Israele non può sostenere due fronti aperti. Anche se alcune notizie ci confermano quali fossero i piani israeliani.
Si riferisce a specifici progetti militari israeliani?
Abbiamo avuto notizie molto precise. Se non ci fosse stato il 7 ottobre, Israele era pronto a ordinare un attacco diretto contro il Libano. Sono notizie confermate anche da fonti militari israeliane. Anche per questo escludo che la guerra arrivi fino a Beirut, ma ciò non vuol dire che quello che sta succedendo al Sud non sia gravissimo. Stiamo assistendo a uccisioni mirate. Vengono usate anche armi al fosforo, dunque le ragioni di preoccupazione sono reali. Deve essere chiaro: se Israele dovesse tentare di entrare in Libano, la cosa non rimarrà solo qui. La Repubblica islamica dell'Iran ha dichiarato apertamente che in questo caso ci sarà una guerra interreggionale.
Hezbollah ha affermato che quando si fermerà la guerra a Gaza, ordinerà ai propri combattenti di fermare gli attacchi su Israele. L’Iran intanto ha un nuovo presidente, e negli Usa permane un clima di incertezza politica. Quali i riflessi dello scenario internazionale sul vostro Paese?
Anche oggi abbiamo ascoltato dichiarazioni dagli Usa secondo cui non ci sarà nessuna guerra in Libano. In ogni caso, malgrado gli errori che Biden sta commettendo, credo che neanche con un presidente repubblicano la politica estera degli Stati Uniti possa cambiare. Gli americani continuano a dare più importanza alla guerra in Ucraina che al Medio Oriente.
Tra un mese è previsto il rinnovo del mandato di Unifil. Alcuni Stati sembrano intenzionati a proporre maggiori poteri per la missione internazionale. Siete d’accordo?
Giovedì ne ho parlato con Jeanine Hennis- Plasschaert, coordinatrice delle Nazioni Unite per il Libano. Ci ha assicurato che il mandato non subirà variazioni. Riteniamo che la Risoluzione Onu 1701 (che dal 2006 prevede una serie di misure per garantire sicurezza sul confine, ndr) non sia da modificare, ma da applicare. Israele ha violato la 1701 oltre 3o mila volte. La comunità internazionale deve esercitare pressioni su Israele affinché smetta di trasgredire le disposizioni.
E il Libano, da parte sua, non ha mai infranto questa risoluzione?
A questa domanda il presidente Berri risponde sorridendo e aprendo le dita di una mano.
Quanti soldati dell’esercito libanese sono schierati al confine?
La risoluzione Onu prevede la presenza di 10mila soldati libanesi in aiuto delle forze Unifil. Ma fino ad ora ne abbiamo dislocati 3mila. Ne ho parlato con Amos Hochstein, l’inviato speciale dell’amministrazione Usa, a cui ho proposto di convocare una riunione internazionale per sostenere l’esercito libanese”
L’Italia è da molti anni impegnata con le sue forze armate in Libano, oggi con la missione Unifil. Quale ruolo può giocare Roma nel contesto della crisi nell’area?
Fino a pochi anni fa l’Italia era il nostro primo partner commerciale. E noi certamente non dimenticheremo mai la presenza delle forze italiane in Libano e il loro impegno per garantire stabilità e sicurezza.
Il Parlamento israeliano a maggioranza ha votato per la definitiva esclusione di ogni piano per “due popoli in due Stati”. Come ha reagito alla decisione della Knesset?
Francamente non mi ha sorpreso. Sapevamo da tempo che molti di quanti parlavano dei “due Stati” mentivano.
Da quasi due anni il Libano attende l’elezione del nuovo capo dello Stato, che secondo la Costituzione deve essere un cristiano maronita. Lei ha dichiarato che non esiste alternativa al dialogo interno al Parlamento. Quando il Paese avrà un nuovo presidente?
Siamo in una fase avanzata. Ho chiesto ai capigruppo di aprire un dialogo e trovare in sette o al massimo dieci giorni un accordo sui candidati per adempiere a questo dovere e dare al Libano un presidente. La nostra Costituzione preserva la suddivisione confessionale, pertanto il presidente deve essere un cristiano maronita, il premier un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita. Io mi sono impegnato a non lasciare fuori nessuno e fare in modo che il dialogo politico sia inclusivo.
Quali sono gli ostacoli?
La Costituzione stabilisce che per eleggere il presidente in prima seduta occorre che uno dei candidati ottenga il voto di almeno due terzi dei parlamentari (86 su 128, ndr). Nessuno è in grado di raggiungere questi numeri. Nelle votazioni successive il presidente può essere eletto con 65 preferenze (la maggioranza relativa, ndr) a condizione che vi siano però almeno 86 parlamentari presenti al momento della votazione. Per queste ragioni è indispensabile il dialogo tra tutte le componenti, dialogo che chiedo in modo pressante. Quando si sarà trovato un accordo sul profilo del presidente necessario al nostro Paese, finalmente l’assemblea parlamentare potrà riunirsi per eleggerlo.
Dall’esplodere della crisi in Siria nel 2011 il Libano ha accolto quasi 2 milioni di profughi siriani che si sono aggiunti agli oltre 300mila rifugiati palestinesi. A oggi è il Paese con il più alto numero di profughi in rapporto alla popolazione. Cosa significa per voi?
In Libano ci sono divisioni su tutto, tranne sull’accoglienza dei profughi. Il tasso di natalità nella comunità siriana è superiore a quello della popolazione libanese. Fra 7 anni il numero di siriani presenti sarà equivalente a quello dei libanesi. Lo dico da musulmano sciita: una schiacciante maggioranza di musulmani rispetto alla comunità cristiana, rischia di essere un problema per l’identità e la stabilità del Libano.
Che cosa propone?
L’ho detto a Ursula von der Leyen: occorre fare in modo che i profughi possano rientrare in Siria con il sostegno internazionale, soprattutto dall’Europa che dovrebbe sostenere gli sfollati che rientrano.
Ma in Siria c’è Assad che non è certo noto per la difesa dei diritti umani fondamentali.
Non credo che l’Europa possa dare lezioni. Noi ad esempio non lasciamo partire i barconi di profughi e non abbandoniamo le persone in mare. L’Ue ha finanziato, ad esempio, la Turchia con miliardi di euro per trattenere i profughi, ma poi Erdogan continua a ricattare gli europei lasciandoli partire.
Presidente, lei è definito in molti modi nel suo Paese e all’estero. C’è chi la chiama «uomo forte», chi «vecchia volpe», chi «abile negoziatore». Lei come vorrebbe essere ricordato?
Abbiamo problemi economici, finanziari, una pesante svalutazione della moneta, e tutto questo in un contesto difficile. Ci sono 4,5 milioni di libanesi qui residenti e altri 14 milioni di nostri emigrati che hanno contribuito allo sviluppo di tanti Paesi nel mondo. Io spero di essere considerato come una persona che ha fatto qualcosa in più per il proprio Paese.