Il centro congresso di Baku - Reuters
L’applauso era esploso fragoroso lo scorso 12 dicembre nel centro congressi di Dubai. Dopo una notte di discussioni interminabili, alle 11.15 del mattino successivo, con quasi venti ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia, la «transizione verso l’uscita dai combustibili fossili» era entrata a pieno titolo fra gli impegni vincolanti per la comunità internazionale. Nei 334 giorni trascorsi da allora, lo scenario mondiale s’è caricato di nuove e pesanti ombre. La guerra mediorientale ha oltrepassato il tredicesimo mese e, al fronte Gaza, s’è aggiunto quello libanese, mentre lo scontro con l’Iran ha raggiunto il massimo livello di tensione. Il conflitto ucraino, intanto, si avvicina al terzo anno consecutivo. Sotto il peso delle armi, il dossier clima è finito in fondo alle agende dei leader internazionali.
Nel frattempo, le emissioni hanno raggiunto un nuovo record: 57,1 gigatonnellate di gas serra, + 1,3 per cento rispetto all’anno precedente. A questo ritmo, la temperatura aumenterà di 3.1 gradi nel 2100, più del doppio della soglia di equilibrio. Solo un drastico cambio di passo può evitare «il rogo del pianeta», per parafrasare il segretario generale António Guterres. È quanto sono chiamati a fare i 197 Paesi parte più l’Ue della Convenzione Onu contro il cambiamento climatico (Unfccc) che da lunedì 11 novembre si riuniranno a Baku, in Azerbaigian, per la 29esima Conferenza delle parti o Cop29. Le premesse, però, sono tutt’altro che favorevoli. I capi di Stato e di governo delle principali economie hanno già dato forfait. Uno dopo l’altro, lo statunitense Joe Biden, la guida della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva hanno declinato l’invito adducendo diverse motivazioni. Lo stesso hanno fatto i capi di Cina, Giappone, Australia e Messico. La premier italiana Giorgia Meloni è in forse. Papua Nuova Guinea ha rinunciato per protesta contro la lentezza dei negoziati. Intellettuali, soprattutto francesi, promuovono il boicottaggio contro il regime azero di Ilham Aliyev.
Non è un segreto, in ogni caso, che, in generale, quella di Baku sia considerata una Cop di transizione in vista dell’appuntamento del 2025: la grande conferenza amazzonica di Belém do Pará, che dovrebbe inaugurare il quinquennio di accelerazione nella transizione ecologica. L’aveva voluta Lula per segnare la stagione dei negazionisti al potere, primo fra tutti il predecessore, Jair Bolsonaro. Ora, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, cinque giorni prima del summit di Baku, scompagina di nuovo le carte. «Proprio in questa fase geopolitica – sottolinea Alex Scott, esperta di diplomazia climatica di Ecco – è più importante che mai intensificare lo sforzo perché la Cop29 raggiunga le mete prefissate». In primis, l’obiettivo principale della Conferenza: fissare l’entità di aiuti che il Nord del mondo dovrà erogare al Sud a partire dal 2026 per ridurre le emissioni - mitigazione – e minimizzare gli impatti del riscaldamento globale, adattamento. Il New collective quantified goal – così si chiama in gergo tecnico – dovrà rimpiazzare l’attuale somma di 100 miliardi l’anno decisi nel 2009 per il quinquennio 2020-2025. In realtà – affermano le stime più accreditate – la cifra è stata raggiunta solo nel 2022 e, per la mancanza di un sistema efficace di monitoraggio, buona parte dei soldi è arrivata sotto forma di prestito, incrementando il peso del debito. O non è andata dove realmente occorreva. Oltretutto, la quantità indicata è già obsoleta a causa dell’acuirsi della crisi climatica. Secondo gli esperti va moltiplicata, come minimo, per cinque.
«Ma, in realtà, occorrono mille miliardi di dollari. Non si tratta di un traguardo irraggiungibile, sommando ai fondi pubblici, i finanziamenti privati. Il punto è la volontà», conclude Alex Scott. Non ho solo questione di quanto. L’altro punto cruciale è il chi dovrà contribuire: le potenze di vecchia industrializzazione premono per includere fra i contribuenti le economie emergenti, le quali resistono. I negoziati, già delicati, dunque, dovranno anche muoversi sul sottile crinale tra la necessità di arginare il surriscaldamento e l’urgenza di non scavare un nuovo solco tra Nord e Sud globale in un mondo sfigurato dalle frattur