Andrea Spezzacatena con la mamma Teresa Manes
Una felicissima immagine del matrimonio dei due genitori “poi la guerra”, parla così, dall’oltretomba Andrea, il protagonista del film Il ragazzo dai pantaloni rosa, tratto da una storia vera, che suscita, a ragione direi, molto interesse in questi giorni. Andrea Spezzacatena si è suicidato a 15 anni, 27 anni fa, e il film ricostruisce la sua storia. Scene crude del parto e poi la sua nascita, mamma e papà che lo tengono tra le braccia ancora non lavato dal liquido amniotico, tanta era la fretta e l’incredulità di averlo con sé. Gli mettono nome Andrea, quel nome piaceva loro perché, spiega la madre, ce ne sono così tanti di Andrea, da rendere il “proprio”, come a proteggerlo, invisibile.
Andrea cresce, è bravo a scuola, sensibile e attento anche al fratellino più piccolo. È ancora molto attaccato alla madre che lo guarda adorante quando arriva alla pubertà e i litigi nella coppia diventano sempre più incalzanti, la fatica e la sofferenza dei due figli nel fargli fronte è evidente. Sì, il film fa sentire ampiamente se pur con delicatezza la fatica di crescere che accompagna Andrea proprio in quell’età complicata dello sviluppo che dà inizio alla adolescenza. E la madre si rammarica di non aver colto le fatiche del figlio, che da solo ha dovuto sopportare tutto quel dolore.
Andrea tiene per sé, ma dal film si intuisce, il turbinio di emozioni che accompagna i cambiamenti del corpo e i sentimenti che nascono, intrecciando quei legami che ancora lo ancorano al mondo della fanciullezza con l’esigenza di proiettarsi in avanti verso un mondo più adulto. È qui che sembra innestarsi un momento significativo della sua ricerca per far fronte alla costruzione della propria identità di giovane ragazzo: quando Andrea rimane attratto da Christian, un compagno di studi molto sicuro di sé, bello, sportivo, con una corte di compagni che gli ruota attorno, e certamente anche lui vorrebbe attirare la sua attenzione. Allo stesso tempo solidarizza con una vivace compagna di classe, Sara, con la quale nasce una frequentazione che arricchisce gli interessi di entrambi.
In questo vasto contesto si ingenerano i fatti di bullismo che faranno soffrire il giovane fino a indurlo a togliersi la vita. Tutto il dibattito che è finora seguito al film si è incentrato fondamentalmente sul paio di pantaloni rosa, quel colore causato da un lavaggio involontariamente sbagliato da parte della madre; Andrea li aveva voluti indossare lo stesso, quasi a volersi appropriare, anche lui così diligente e regolare, di un aspetto di anticonformismo che in qualche modo lo divertiva e lo sfidava. Sfidando anche gli altri.
A questi pantaloni rosa nel corso dei numerosi dibattiti che continuano a susseguirsi è stata finora conferita una connotazione a senso unico, quella che contrassegna al soggetto che li sceglie un orientamento omosessuale, e il bullismo che Andrea ha subito ha assunto anch’esso un significato omofobico.
In verità il film illustra con chiarezza e fine sensibilità che Andrea aveva bisogno di essere riconosciuto, esigenza strutturale di ogni soggetto umano durante il percorso di crescita. Andrea cercava per sé la forma giusta di riconoscimento, e lo faceva nello scambio anche con questo compagno-modello (il bullo), giocando le carte della sua autenticità e intelligenza, attraverso la propria bravura nello studio o riuscendo con valore nelle gare sportive.
Interessante la valutazione che ha dato in un’intervista Andrea Arru, il giovane attore che impersonava l’antagonista Christian, spiegando come il bullo avesse un rapporto non buono con la propria mascolinità, avvertita come bisogno di prevalere sull’altro. A differenza di Andrea che, pur con le sue insicurezze, fisiologiche in quanto proprie dell’età che stava attraversando, era capace di mettersi autenticamente in gioco nella relazione e di avere il coraggio di vivere una competizione sana, in vista di una crescita personale.
Come ha affermato Teresa, la vera madre di Andrea, al centro del conflitto non c’era l’omosessualità, ma la mancanza del rispetto della persona di Andrea, per quanto nell’inconsapevolezza da parte degli stessi giovani che usano parole “capaci di uccidere”. Alla presa di questa consapevolezza dedica oggi la propria vita Teresa Manes, confrontandosi con gli studenti nelle scuole. Dall’altra parte Margherita Ferri, la regista, ha spiegato come il criterio da lei seguito nel realizzare questo progetto, verso cui avverte grande responsabilità, è stato quello di non voler giudicare nessuno dei personaggi: anche il bullo soffre di proprie, profonde fragilità e il suo film è un invito a parlare e a condividere il proprio dolore.
Dispiace constatare invece come tra i tanti spunti offerti dal film su numerosi aspetti che riguardano la vita dei giovani delle attuali generazioni e che chiamano in causa gli adulti nei differenti ruoli ricoperti (in quanto genitori, insegnanti ma anche gli specialisti, i legislatori e i politici …), a cui compete il compito di guida educativa, gli aspetti formativi non hanno trovato l’attenzione meritata.
Sono fuorvianti, almeno in relazione al film in questione, i continui riferimenti all’omo e transessualità, identificate con le istanze Lgbt, con il relativo rischio di strumentalizzazione ideologica.
Si potrebbe concludere che con tale approccio si finisce per imprigionare due volte Andrea e con lui gli altri, purtroppo numerosi, casi simili al suo: prima per mano dei compagni attraverso il cyberbullismo, poi per mano di quegli adulti con ruoli e responsabilità varie, che chiudono Andrea in gabbie identitarie forzate.
pedagogista