
Una ragazzina Rohingya, con il fratellino, in una struttura di cura in Bangladesh finanziata da Usaid e ora a rischio chiusura - Reuters
Nella sconfinata e brulla savana della Karamoja, lì dove l’Uganda è già quasi Kenya e l’allevamento di bestiame è questione di vita o di morte per tribù di pastori che fronteggiano la prima linea del cambiamento climatico, le conseguenze dei tagli agli aiuti internazionali sono già arrivate. Perché se è vero che ci vorrà del tempo perché lo stop di Trump al programma americano Usaid e la riduzione delle donazioni di altri Paesi occidentali dispieghino in pieno i loro effetti, gli interventi sul campo stanno già subendo una brusca frenata, facendo lanciare l’allarme soprattutto sul nodo della lotta alla fame. «Stavamo partecipando con due nuove iniziative a una selezione lanciata da Dai, che aveva ricevuto fondi Usaid per il programma Feed the future, nutri il futuro. Avevamo appena superato la prima fase, ma nel corso della seconda è stato tutto bloccato – racconta ad Avvenire da Kampala Pierangela Cantini, coordinatrice dei programmi dell’Ong piacentina Africa mission Cooperazione e sviluppo –. Un progetto era legato all’ambito della sanificazione dell’acqua in cento villaggi, un altro riguardava invece l’allevamento del bestiame, con l’applicazione di microchip in grado di migliorare la produzione e quindi con conseguenze positive per la nutrizione delle comunità locali. Ora però è tutto fermo».
Sono migliaia in tutto il mondo gli interventi simili che le Ong potrebbero essere presto costrette a bloccare, in un contesto in cui già la policrisi degli ultimi anni – dagli strascichi del Covid alla guerra in Ucraina, dalla crisi del debito al surriscaldamento del pianeta – ha già reso ancora più complicata la lotta alla fame. Mentre ieri a Parigi si riuniva il Nutrition for Growth Summit, vertice dedicato alla nutrizione del pianeta, nuove stime diffuse da un gruppo di esperti su Nature hanno evidenziato quanto l’improvviso stop agli aiuti avrebbe conseguenze letali per anni a venire. Oltre all’annunciato smantellamento di Usaid, anche altri tra i principali donatori occidentali hanno manifestato l’intenzione di diminuire i loro impegni, dal Regno Unito (-40%) alla Francia (-37%), dai Paesi Bassi (-30%) al Belgio (-25%). In totale questi tagli equivarrebbero a un calo del 44% rispetto agli 1,6 miliardi di dollari donati nel 2022 all’Oms sul fronte degli obiettivi per la nutrizione. La malnutrizione acuta grave, sottolineano gli esperti, è la più letale forma di malnutrizione: è responsabile fino al 20% della mortalità infantile e colpisce 13,7 milioni di bambini ogni anno nel mondo.
Una diminuzione globale – come annunciato di 704 milioni di dollari per i programmi contro la fame si tradurrebbe in un calo di 290 milioni per trattamenti contro la malnutrizione acuta grave. Vorrebbe dire uno stop ad interventi in favore di 2,3 milioni di bambini nei Paesi a medio e basso reddito, con il rischio di ulteriori 369mila morti l’anno tra i bambini sotto i 5 anni, morti che si potrebbero invece prevenire. Il solo stop di Usaid lascerebbe un milione di bambini senza accesso ai trattamenti, con la morte di 163.500 bambini.
Drammatiche anche le conseguenze di lungo termine. Bambini malnutriti andrebbero incontro a uno sviluppo cognitivo e fisico deficitario, senza contare i costi economici della malnutrizione attraverso la perdita di capitale umano e l’aumento delle spese sanitarie. Secondo Banca mondiale, investire un dollaro nella lotta alla malnutrizione equivale a garantire 23 dollari in termini di capitale umano e prosperità economica di un Paese. Per Carlo Ruspantini, direttore generale di Africa mission, lo stop agli aiuti «è a dir poco traumatico, sia per metodo sia per gli effetti provocati nell’immediato e sulle programmazioni future delle organizzazioni non profit, dei tanti dipendenti locali rimasti senza un lavoro, dei tanti, troppo bisognosi rimasti senza un sostegno spesso essenziale alla sopravvivenza».
Non c’è solo la malnutrizione, ovviamente. Dei 38 miliardi di dollari che Usaid ha speso nel 2023, quasi 20 sono stati destinati a programmi sanitari e all’assistenza umanitaria per rispondere alle emergenze e aiutare a stabilizzare le regioni devastate dalla guerra. «Stiamo monitorando gli impatti – spiega Guglielmo Micucci, direttore di Amref Health Africa-Italia – perché anche le comunità supportate da Amref stanno risentendo dello stop agli aiuti». Al momento, infatti, sono 20 i progetti dell'organizzazione che hanno dovuto sospendere le attività.
«In Malawi circa 20mila donne incinte sono a rischio di trasmettere l'Hiv ai loro al nascituro a causa del limitato accesso ai servizi di prevenzione. In Tanzania più di mezzo milione di test di screening per la tubercolosi potrebbero non essere effettuati, rischiando così un'ulteriore trasmissione all'interno delle comunità. In Etiopia saranno particolarmente colpiti i giovani – aggiunge Micucci –. Per fare solo uno dei tanti esempi, tra il dicembre 2024 e il marzo 2025, ci siamo prefissati di dotare oltre 12.000 giovani di competenze fondamentali, imprenditorialità e preparazione al lavoro. Questi piani sono stati interrotti, con un impatto diretto sulle potenzialità occupazionali di 5.000 giovani».