sabato 4 febbraio 2023
Parla il vescovo di Rumbek, in Sud Sudan vittima di un attentato nel 2021: oggi posso dire che è stato un momento di grazia. Mi aspetto che la visita del Papa dia più coraggio nel cercare la pace
Carlassare (vestito di bianco) alla marcia ecumenica di attesa del Papa

Carlassare (vestito di bianco) alla marcia ecumenica di attesa del Papa - Web

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Christian Carlassare è un vescovo in cammino. Non solo perché cerca di seguire il Vangelo, ma in senso letterale. Ha infatti preparato l’arrivo del Papa con un pellegrinaggio “ecumenico” a piedi. Un’iniziativa di pace con protagonisti ottanta giovani, di diversa denominazione cristiana, che dal 25 gennaio a giovedì scorso hanno percorso venti chilometri al giorno, incontrando le comunità, pregando, riflettendo su figure bibliche che hanno risposto alla chiamata di Dio. «È stata l’occasione – spiega – per trasmettere il messaggio di comunione e speranza portato dal Papa. E che vogliamo continuare a diffondere anche quando se ne sarà andato».

Missionario comboniano, 45 anni, originario di Schio, nel Vicentino, Carlassare è dal 25 marzo 2022 vescovo di Rumbek, diocesi del Sud Sudan che si estende su un territorio di circa 60mila kmq coprendo per intero lo Stato dei laghi. Il suo nome però inevitabilmente rimanda alla cronaca, per la precisione alla notte del 25 aprile 2021, quando venne ferito alle gambe in un agguato che lo costrinse a rimandare di quasi un anno la consacrazione episcopale. Per quell’atto criminale, legato a contrasti intertribali, un sacerdote e quattro laici sono stati condannati a sette anni di carcere. «Dalla visita del Papa – sottolinea Carlassare – ci aspettiamo che dia più coraggio alle istituzioni per realizzare quanto previsto dall’accordo di pace facendo crescere il dialogo con i gruppi che non vi hanno aderito. E che questi ultimi siano maggiormente disponibili a mettersi in cammino insieme, privilegiando il bene comune sugli interessi di parte».

E la gente cosa chiede?

Di essere davvero “visitata” dal Papa e dagli altri leader religiosi. Perché, al di là del governo e delle istituzioni, la pace è possibile quando la popolazione scopre un nuovo modo, non violento, di risolvere i problemi, mettendo da parte le armi, la rabbia, l’insoddisfazione e la memoria negativa del passato.

E per la Chiesa cosa vi aspettate?

Un rinnovato dono dello Spirito verso una comunità cristiana sempre di più al servizio della giustizia e della pace. Una comunità che evangelizza e proclama una Parola che chiama a riconciliarsi con il proprio passato, con le persone che siamo, nella società, nelle realtà locali, e, certamente, con Dio.

In che modo occorre lavorare per superare le tensioni tribali?

Ci sono narrazioni violente di ingiustizie, di tensioni, di paure, di pregiudizi. Si tende ancora troppo a vedere nell’altro un nemico. Bisogna superare questa dicotomia e capire che esiste una storia comune di cui tutti fanno parte e che non c’è vita né futuro se i 64 gruppi locali non sono in grado di riconoscersi come cittadini con uno stesso compito e uno medesimo destino. I sud sudanesi hanno vissuto insieme per centinaia di anni, ci sono matrimoni misti. Di contro a racconti negativi di paure e di pregiudizi verso l’altro, bisogna portare avanti storie di speranza, di giustizia, di comunione, di perdono tra le diverse comunità.

Alcuni partecipanti al cammino ecumenico guidato da Carlassare

Alcuni partecipanti al cammino ecumenico guidato da Carlassare - Web

Molti hanno ancora negli occhi l’immagine di Francesco che, per invocare la pace, bacia i piedi ai leader sud sudanesi.

Credo che quel gesto forte e profetico sia stato accolto con grande senso di responsabilità. A partire dai vertici istituzionali che hanno firmato un accordo di pace e formato un governo di unità nazionale. Ovviamente il cammino per la stabilità non è facile, ci sono ancora molte ferite da curare, ma quel giorno il Papa ha davvero toccato il cuore di tante persone, consapevoli che è possibile stare insieme solo se si è capaci di riconoscere nell’altro un fratello nel bisogno, mettendosi al servizio di chi soffre. Il benessere del Paese è dato dal benessere di ogni cittadino.

Se non le spiace torniamo per un attimo all’attentato che subì appena nominato vescovo. Come interpreta oggi quel gesto? Rabbia? Amarezza? Serenità?

Certo è stato un momento molto difficile. Ho sperimentato l’impotenza, la paura e anche la frustrazione di essere stato parte di un momento così divisivo all’interno della mia stessa diocesi. M a mi sono affidato a Dio sia nel momento dell’attentato che dopo, perché la sua volontà potesse compiersi, in me come nelle persone che tanto amano questa Chiesa.

E oggi?

La mia presenza, sin dal ritorno, è nel segno della serenità, della fiducia, del desiderio di comunione, per superare le divisioni di allora e creare una fraternità che ci permetta di evangelizzare non solo a parole ma con le opere e l’esempio. Soprattutto con la croce portata insieme, perché solo la croce può farci superare le gelosie, le incomprensioni, gli egoismi che possono cogliere la persona umana che si allontana da Cristo.

Lei è arrivato a definire l’attentato una grazia.

Una grazia per me e per la Chiesa, perché ci ha fatto tutti cadere, come Gesù portando la croce, per poi rialzarci insieme sostenendoci gli uni gli altri per continuare un cammino nella verità e nella giustizia, nella solidarietà.

I proiettili dell’attentato li ha “offerti” alla Madonna.

Ho pensato che non avrei dovuto conservare una memoria negativa di quanto successo, ma di grazia. Perché il Signore si è fatto presente in ogni istante e mi sono sentito guidato da Lui a vivere questo momento come un passaggio necessario per la mia vita e il mio ministero. Allora, una volta in Italia ho pensato di lasciare i proiettili nel santuario della Madonna dell’Angelo che mi è particolarmente caro. Lì ho imparato a pregare, ad amare il Signore, a chiedere l’intercessione della Madonna e a sentire la sua presenza amorevole. E devo dire che in cambio dei proiettili ho ricevuto tanta pace e serenità. Inoltre il parroco mi ha dato una medaglia di Maria che porto infissa nel bastone pastorale.

Parlando di Sud Sudan non si può non pensare a monsignor Cesare Mazzolari (vescovo di Rumbek dal 1999 al 2011 quando morì) che tanti riconoscono come un padre della nazione. Quale eredità ha lasciato?

In tempo di conflitti ha dato dignità ai più poveri e abbandonati, quelli che maggiormente stavano soffrendo. É stato presente con la luce della fede, la proclamazione del Vangelo ma anche con tanti servizi per promuovere l’umano: ambulatori, scuole, la formazione di medici, di insegnanti, di catechisti. Padre Mazzolari è stato un “buon pastore” vicino alle sue pecore, un missionario pieno di energia con nessun’altra passione se non per questa Chiesa martoriata. Un grande figlio di Daniele Comboni, cui somigliava tanto.

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