Il filosofo Massimo Cacciari - Ansa
«Ratzinger è un intellettuale europeo al mille per cento»: così Massimo Cacciari, uno tra i filosofi più noti in Italia e in Europa, che non ha mai esitato a confrontarsi con i grandi temi della filosofia e della teologia, parla di Benedetto XVI.
In quale relazione si trova il pensiero di Benedetto XVI con il pensiero moderno?
La sua posizione sull’eterno problema del rapporto tra fede e ragione è evidente fin dai primi studi sulla filosofia medievale e su san Bonaventura. L’attenzione a questo rapporto lo caratterizza in modo fondamentale rispetto alle correnti del pensiero e della teologia contemporanei, che da una parte negano la possibilità di porlo positivamente e dall’altra lo risolvono in modo compromissorio. Mentre per Ratzinger è proprio della fede rapportarsi con il logos, immanente all’atto di fede e che deve tendere alla verità esattamente come l’atto di fede. Quando Gesù dice “io sono la verità”, la questione non si risolve ripetendo quanto lui dice ma indagando che cosa lui tende a dire.
Quindi la verità è centrale in Benedetto XVI?
Aletheia è la parola chiave, che distingue Ratzinger da Bultmann e da tanta teologia. Per Ratzinger è legittimo e giusto il legame che si opera fin dai primi secoli del cristianesimo tra la filosofia greca e il Vangelo. È un legame che non si è sovrappone al Vangelo ma che in qualche modo nasce dal Vangelo stesso, che si impone a partire da quel messaggio. Questo è il discorso intorno a cui dibatte la teologia e dell’Otto e Novecento a partire dall’idealismo tedesco, cioè tutta quella tradizione a cui Ratzinger appartiene anima e corpo».
Quale ruolo recita allora la ragione?
La filosofia svolge la sua missione nella misura in cui interroga la fede ed esige che renda ragione di sé. È una funzione critica positiva: ma deve essere una filosofia interessata al programma della verità. La filosofia contemporanea per Ratzinger tende invece a una deriva relativistica e svolge una funzione di critica della teologia e della fede in senso negativo, ritenendo a priori che l’atto di fede non abbia più alcuna significato nel mondo della scienza e della tecnica.
In questa concezione che funzione gioca la Chiesa?
Per lui “nulla salus extra ecclesiam”. La Chiesa non è una forma politica, perché ha una missione fondamentale, e la cristianità non sarebbe concepibile senza di lei. Quella esaltata da Schmitt e da tanti altri pensatori conservatori è una visione della Chiesa ridotta alla funzione di religio civilis che serve solo a tenere in forma questo mondo senza religio. La Chiesa per Ratzinger, invece, non è un katechon, non è ciò che trattiene il male e che tiene in forma questo mondo. Essa ha una missione evangelizzatrice in senso proprio, cioè deve mostrare il Cristo e interrogarsi sulla verità che Cristo manifesta.
E la speranza?
Quando Ratzinger parla di speranza parla di una virtù teologale. Per caprine la riflessione, oltre alla fede, occorre capire che, come Wojtyla, ha elaborato la propria teologia in un’epoca storica in cui il marxismo era forza vivente, come movimento culturale oltre che storico. L’uno scrive le sue opere fondamentali con la Germania divisa in due, l’altro con la Polonia occupata. La speranza di Ratzinger si fonda sulla fede, perché altrimenti sarebbe vuota; non ha nulla a che fare con la speranza di chi non crede. Perché a un certo momento Benedetto XVI scrive i libri su Gesù? Perché comunica che per sperare bisogna guardare a Lui, solo allora la speranza ha senso. Ci sono discrimini profondi con le marmellate sentimental-patetiche dove i termini valgono in maniera indistinta. In Ratzinger la Chiesa deve chiamare a una conversione, questa è la sua Chiesa necessaria. Che non è, appunto, katechon. Che chiede costantemente la conversione a questa speranza. Che non è fondata finché non si pone sulla via della verità. Il grande teologo - e l’uomo che ha alle spalle quella storia di cui parlavo - chiede distinzione e discriminazione, chiede di comprendere bene i termini che si usano.
E per la carità?
Valgono le stesse considerazioni. La misericordia non è semplicemente fare la carità, la misericordia è partecipazione esistenziale, carnale con il prossimo: nel senso che il prossimo sei tu quando ti approssimi. Questa è la dinamica della caritas: non si tratta di schiacciare il bottoncino e dare l’euro quando te lo chiede il presentatore. Non è questa la misericordia di cui la Chiesa deve farsi testimone. Bisogna distinguere per non confondere, non per condannare, perché la Chiesa non può condannare nessuno, non spetta a lei esprimere il giudizio. È un grande tema francescano che all’inizio mi sembrava fosse la novità centrale anche di papa Francesco, quando invitava ad andare ovunque a predicare il verbo ma senza giudicare, perché il giudizio spetta ad Altri.
Occorre dunque evangelizzare?
L’evangelizzazione dell’Europa è un compito impossibile. Ecco perché Ratzinger, come Wojtyla, è una figura tragica. In entrambi vibrava l’attesa che, caduto il comunismo, iniziasse una nuova evangelizzazione per l’Europa. Ma è un’aspettativa delusa perché le potenze della secolarizzazione la rendono impossibile. Per questo tutti i termini che abbiamo usato finora possono essere soltanto declinati in termini etico-morali: in una chiave diversa non verrebbero ascoltati.
Quale eredità lascia?
Con Wojtyla lasciano la testimonianza della loro esperienza e della loro intelligenza a tenersi aperti al confronto con le correnti filosofiche contemporanee e le altre fedi, e qui si apre tutto il discorso dell’ecumenismo, ma tenendo la posizione senza generare confusione. Sono stati cattolici senza cedimento, e questa è la loro forza.