sabato 4 luglio 2015

​Dagli immigrati usati come schiavi nei campi ai finti lavoratori che truffano lo Stato.
Così l'agricoltura sfrutta i migranti
Moncalvo (Coldiretti): le filiere deboli preda delle mafie

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È uno sfruttamento che in molti casi rasenta la schiavitù quello denunciato dal Rapporto Presidio 2015 della Caritas, relativo al settore agroalimentare. Presentato ieri in queste pagine, ha suscitato un ampio dibattito. Mafie, sommerso, caporalato, produttori fraudolenti, la responsabilità della grande distribuzione. Con paghe giornaliere che dai (miseri) 25 euro al giorno sono crollate ai 10-15. Dieci Caritas diocesane hanno avviato un progetto per garantire una presenza costante tra queste persone, di origine tanto africana quanto asiatica (India e Pachistan, soprattutto) e dall’Europa dell’Est. Ma quali sono le cifre dell’illegalità e dell’infiltrazione mafiosa nel settore agroalimentare in Italia? Secondo la Direzione nazionale antimafia il peso ammonta a 12,5 miliardi di euro. Mentre l’Osservatorio Placido Rizzotto stima che in tutta Italia siano 400mila i lavoratori che potenzialmente trovano un impiego tramite i caporali, di cui almeno 100mila presentano «forme di grave assoggettamento dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche ». Una situazione che porta anche a un degrado sanitario: il 60% di chi lavora sotto caporalato non ha accesso a servizi igienici e acqua corrente, oltre il 70% si ammala dopo l’ingresso nella meccanismo disumano del lavoro agricolo stagionale. (A.Bel.) È il gran business dei falsi braccianti. Decine d’inchieste raccontano che in Calabria come altrove l’agricoltura è spesso sfruttata da criminali per svuotare illecitamente le casse dello Stato. Con truffe da professionisti basate anzitutto su contratti fasulli di fitto o comodato di terreni necessari a giustificare la solo formale assunzione di lavoratori, tecnicamente operai agricoli a tempo determinato (Otd), grazie ai quali certificare giornate lavorative fittizie e ottenere indennità di disoccupazione e malattia, sussidi di maternità e assegni familiari. A Bari una manciata di giorni fa carabinieri e ispettori del lavoro hanno individuato 479 braccianti fasulli e una truffa all’Inps per oltre 1,1 milioni di euro. L’anno passato Medici per i diritti umani (Medu) ha denunciato le drammatiche condizioni abitative, igienico- sanitarie e lavorative in cui sono costretti a vivere gli oltre 2mila migranti che ogni anno giungono nella Piana di Gioia Tauro, anzitutto a Rosarno, per la raccolta degli agrumi: l’89% è in nero e il 64% riceve al massimo 25 euro per un giorno di fatica. Il 46% non riesce a lavorare più di tre giorni a settimana. Un terzo dei migranti visitati consuma solo due pasti al giorno mentre la maggior parte delle malattie diagnosticate, in una popolazione giovane e sostanzialmente sana, è legata alle pessime condizioni abitative e igienico-sanitarie e alle durissime condizioni di lavoro.  Lo sfruttamento dei braccianti, soprattutto stranieri, è un affare ricco anche per la malavita. Nella Piana di Sibari la coraggiosa denuncia di braccianti indiani e pachistani ha fatto venire a galla i soprusi d’un trentaduenne, considerato esponente d’un clan locale, che aveva schiavizzato 17 persone obbligandole per oltre due mesi a turni di lavoro devastanti, anche in giornate di pioggia battente, vento e freddo gelido. Non contento, per aumentare ulteriormente il potere ricattatorio, tratteneva gran parte dei salari. E se le vittime si azzardavano a protestare, dovevano subire minacce e violenze fisiche e psicologiche. Nell’ambito della stessa inchiesta è stata scoperta un’altra azienda agricola che utilizzava tre rumeni in nero, anch’essi vessati e non pagati adeguatamente, e un supermercato con 9 impiegati anch’essi in nero e tre irregolari sui 22 identificati. Dal punto di vista generale, dal 2011, quando è stato introdotto il reato di capolarato, al 2014 sono stati oltre 350 i caporali arrestati. In termini di mancato gettito contributivo, il danno apportato dal caporalato ammonta a oltre 600 milioni di euro l’anno. Immigrazione e agricoltura in Calabria fanno coppia però anche in termini positivi. Nella Locride è germogliato il frutto saporito del gruppo cooperativo Goel che offre lavoro, garantisce protezione, difende dalle oscillazioni eccessive e dai passaggi a vuoto del mercato. Goel Bio è pensata per rispondere proprio allo sfruttamento dei braccianti. Ha messo in piedi una filiera che garantisce ai prodotti prezzi più alti del mercato tradizionale. In cambio i soci firmano una clausola etica rigorosa in cui si obbligano ad accettare ispezioni senza preavviso dell’azienda. E se si trova un solo lavoratore non in regola scatta l’espulsione immediata da Goel e una sanzione minima di 10mila euro. 
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