
Kostantin Guadauskas
Kostantin Guadauskas per tutti era il taciturno kazako di Bucha. Diceva di essere un esule a causa di un leader riformista che aveva voltato le spalle ai suoi sostenitori, consegnando il suo Paese ai burattini del Cremlino. Una storia come tante, dall’ex impero sovietico. Ma quando i russi arrivarono a Bucha, il kazako diventerà il furbo salvatore di 207 civili. E non solo.
Tre anni dopo non è affatto tranquillo. Dopo avere trucidato più di 600 civili, altri 33 sono stati trascinati via durante la ritirata e non sono mai più stati liberati. Restano in ostaggio di Mosca. Come Vladyslav Popovych, ferito e catturato dalle truppe russe durante il massacro del 2022. «Continuavano a sparargli anche se erano in ginocchio con le mani alzate», ricorda Tetyana, la madre.
Le prove le ha custodite il kazako, che molti paragonano a Jan Karski, il soldato polacco che nel 1942 riuscì a informare le potenze occidentali di quel che facevano i nazisti, venendo però ricambiato di un colpevole scetticismo.Quando presero d’assedio Bucha, Kostantin assistette alle prime uccisioni. E gli venne in mente che con un passaporto del Kazakistan magari avrebbe potuto attaccare bottone con qualche ufficiale russo. Si fece avanti un giorno che voleva portare da mangiare a degli anziani rimasti da soli. Lo lasciarono fare. Così Kostantin cominciò a imbastire una rete di insospettabili informatori. La sua “spia” preferita era una vecchietta che se ne stava seduta in giardino, sul ciglio della strada principale, anche quando nevicava. Nessuno le avrebbe dato peso. Kostantin sapeva che la nonnina in realtà aveva lavorato per anni in una fabbrica di armi fin dai tempi dell’Unione sovietica. E lei annotava a mente tutto: equipaggiamento, munizioni, sistemi d’arma. Quando il kazako le portava da mangiare riferiva tutto. Non c’era però modo di far arrivare le informazioni all’esterno. Allora decise che con le auto elettriche della sua piccola azienda di autonoleggio avrebbe potuto tentare delle evacuazioni.
Una mattina va a trovare il colonnello russo. E gli parla di Dio. Kostantin, che non gli dirà di essere cattolico, lo mette alle strette: «Che cristiani siamo se non lasciamo almeno curare chi ne ha bisogno? Cosa penseranno di voi russi?». Nei primi giorni gli occupanti avevano bisogno di fare accettare la loro presenza. Devono aver pensato che qualche concessione avrebbe potuto facilitare le cose. Il colonnello ci casca e parte così la prima spericolata spedizione: una famiglia viene accompagnata fino all’ultimo checkpoint russo, nel territorio controllato dagli ucraini. A una condizione sottintesa, come gli fece capire il colonnello Artem Gorodylov: se Kostantin avesse provato a fuggire, i militari lo avrebbero crivellato. Un giorno sì e l’altro pure il kazako negozia con il colonnello Gorodylov altre “evacuazioni umanitarie”. Riuscirà a portare via 207 civili in meno di un mese.

Quello che i soldati di Mosca non sapevano è che Kostantin aveva un piano per fare arrivare le informazioni ai massimi vertici dell’intelligence ucraina. Tra le famiglie da esfiltrare, infatti, individua dei parenti di Kyrylo Budanov, il potente comandante del servizio segreto militare ucraino. E’ così che i dettagli dell’occupazione giungono finalmente oltre il filo spinato, preparando il terreno alla riconquista ucraina.
Qualcosa, però, i russi devono aver cominciato a sospettare, se a Kostantin il comandante in persona pianterà in faccia la canna del fucile automatico. Abbastanza per capire che sarebbe stato meglio fermarsi. Non il kazako, che a un certo punto si ritroverà a seppellire di persona alcuni dei civili trucidati dagli occupanti. E in altre occasioni si recherà a casa di famiglie che troverà sterminate in un'orgia di violenza e sangue. Forte del permesso ottenuto, era riuscito a nascondere un cellulare senza più segnale di comunicazione. Ma con quello ha girato di nascosto brevi video e scattato foto dei crimini. Ce le mostra, dopo averle consegnate agli investigatori internazionali. Si vede la gioia di chi riesce a fuggire. E l’orrore delle peggiori brutalità.
«Bucha non è libera», dicono i sopravvissuti. I russi se ne sono andati il 31 marzo del 2022. La guerra no, e tanti sentono di essere ancora prigionieri. Soprattutto qui, dove neanche la chiesa ortodossa al centro del Paese venne risparmiata dal tiro sfrenato dei mitraglieri. «Non siamo liberi», ripete la gente del posto ai giornalisti che periodicamente tornano sui luoghi della mattanza. «Saremo liberi quando avremo avuto giustizia per quello che ci hanno fatto, e quando tutti gli ostaggi torneranno», chiariscono i residenti che nella nebbia del primo mattino attendono spazientiti che gli impiegati dell’esercito esaminano le loro istanze. A un uomo di mezza età congedato dal servizio militare a causa di una invalidità, è stata recapitata la lettera di richiamo nelle forze armate. «Mi dicano come dovrei combattere, con le stampelle?», domanda agli altri in coda con lui. Un’altro si toglie il cappello, per parlare ai reporter. Racconta di quando abitava nella foresta, appena fuori dall’abitato. Un inferno. La morte addosso. «Poi una mattina vediamo un centinaio di tank russi andare via di corsa. Non c’erano soldati ucraini a inseguirli in quel momento, eppure i russi se ne sono andati». Compiendo l’ultimo massacro sui malcapitati a portata di tiro.
A chi gli chiede come sia riuscito ad affrontare la paura e scampare alla fucilazione, Kostantin risponde ogni volta soprendendosi del fatto che non sia ancora tutto chiaro: «Pregavo Gesù, e lui mi ha fatto da scudo». E guai a contraddirlo. Su questo il taciturno kazako di Bucha non è disposto a discutere.