
Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa (1936-2025) - Ansa
«Ho imparato a leggere a cinque anni. […] La lettura trasformava il sogno in vita e la vita in sogno e poneva alla portata del piccolo uomo che ero l’universo della letteratura. Mia madre mi raccontò che le prime cose che io scrissi furono continuazioni delle storie che leggevo, perché mi dispiaceva che finissero, oppure volevo cambiare il finale». Queste poche parole sono di Mario Vargas Llosa, morto ieri a 89 anni, in occasione della consegna del Nobel, nel dicembre 2010. Considerato uno dei massimi romanzieri e saggisti contemporanei e uno dei massimi esponenti del boom latinoamericano, l’opera narrativa di Mario Vargas Llosa è stata segnata, fin dagli esordi, da una forte componente autobiografica mischiata a quella di pura invenzione. Lo dimostrano i tre romanzi della fama, La città e i cani (1963), ispirato alla sua esperienza nell’accademia militare frequentata in gioventù a Lima, La Casa Verde (1966) e Conversazione nella Cattedrale (1969), analisi della vita politica e sociale del suo Paese, che – come scrisse Angelo Morino, suo traduttore Einaudi ne La zia Julia e lo scribacchino (1977) – utilizzano ai fini del racconto «pezzi di realtà a lui noti e da lui vissuti». Lo dimostra altresì La zia Julia e lo scribacchino, dove in parallelo alla storia di Pedro Camacho, il «Balzac creolo», scorre quella di Mario – «pallidamente autobiografica, come il nome lascia intendere» –, aspirante scrittore attratto dalla curiosa macchina dell’immaginario.
Tutti questi sono alcuni dei grandi temi di Vargas Lllosa: il potere dell’immaginazione, il valore della letteratura come ponte tra persone e «contro ogni forma di oppressione», l’impegno politico e l’importanza di riconoscere i maestri, in un percorso che l’ha portato a sua volta a diventare tale. «Fortunatamente c’erano i maestri per imparare da loro e per seguire il loro esempio», dice sempre in occasione del Nobel. E poi cita Flaubert per la pazienza, Faulkner per la forma e Martorell, Cervantes, Dickens, Balzac, Tolstoj, Conrad, Mann per il ritmo e l’ambizione. Camus e Orwell per il fatto che «una letteratura priva di morale è inumana». A questo proposito, giusto qualche giorno fa, in occasione dell’uscita del volume Davanti allo specchio (Mimesis, 2023), che riunisce una serie di sue interviste realizzate dal giornalista Juan Cruz Ruiz fra il 1989 e il 2022, venivano citate queste sue parole sulla letteratura, che dimostrano tutta la sua attenzione a ultimi, poveri, emarginati ed esclusi, grazie alla capacità di sporcarsi le mani con problemi reali, di immergere le mani nella materia. La letteratura, diceva, è «in grado di renderci straordinariamente sensibili. Comprendiamo più a fondo l’essere umano, i limiti, concepiamo la vita come problema, una cosa che molte persone non sanno fare proprio perché non conoscono quel pungolo che proviene dai libri, dalle idee che i libri trasmettono».
Vargas Lllosa nella sua vita si è anche chiesto se «lo scrivere non fosse un lusso solipsista», ma la sua produzione in qualche modo ha eluso questo dubbio, così come l’ha fatto la motivazione con cui vinse il Nobel (peraltro primo scrittore di origine peruviana a vincere il riconoscimento di Stoccolma), per «la propria cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo»: in poche parole, attenzione per l’altro, per il prossimo. Di lui Claudio Magris disse: «Ci sono scrittori che ci cambiano la vita, perché ci aprono gli occhi, il cuore, la mente: Vargas Llosa è uno di questi». Vargas Llosa ci riesce per esempio in uno degli ultimi romanzi, L’eroe discreto (Einaudi, 2013), dove parla del coraggio di uomini senza potere che si ribellano alle avversità. Riesce a farlo anche quando parla d’amore, come in Avventure della ragazza cattiva (2006), che riesce con profondità ed estrema naturalezza a parlare però di molto altro (come i migliori libri d’amore?), e si conclude così: «Hai sempre voluto essere uno scrittore e non ne hai mai avuto il coraggio. Adesso che sto per lasciarti solo, puoi approfittarne, così non ti mancherò troppo. Almeno, confessa che ti ho dato un buon argomento per un romanzo». Questo è il potere della letteratura che lascia in eredità Vargas Llosa.
Un potere evocativo straordinario che con la sua penna ha saputo declinare anche nel giornalismo e nel teatro: nel 2015, con I racconti della peste, partendo dal Decameron di Boccaccio, va indietro sino al 1348. Mentre la peste nera devasta le città, cinque persone si ritirano in una villa di campagna per isolarsi dal contagio. Tra loro lo stesso Boccaccio, che accompagna gli altri quattro in un luogo dove fantasia e realtà non sono più così facili da distinguere. Si torna perciò a quell’autobiografia di cui sopra, mischiata alla fantasia e all’immaginazione pure, di cui Morino dice però che «le coincidenze fra vita e opera sono lontane dal promuovere l’autore al ruolo di protagonista all’interno dei suoi testi. […] Le coincidenze sono, semmai, segnali di un impegno di testimonianza»; di militanza in un certo senso, di protesta contro la realtà, per un mondo che necessita di aggiunte, che forse solo la scrittura può dare. Vargas Llosa diceva di non voler diventare uno scrittore a metà e sicuramente vi è riuscito, facendo della letteratura una possibilità altra, un atto di libertà atto a scrivere o riscrivere la realtà, o almeno parte di essa. Perciò, il suo lascito in un certo senso è assimilabile allo stesso desiderio che lui stesso ha espresso in quel discorso del Nobel: ovvero cambiare il finale, per il dispiacere che una storia finisca. Tuttavia, «la letteratura è una rappresentazione fallace della vita. […] Le bugie della letteratura si trasformano in realtà attraverso di noi, lettori trasformati, contaminati da desideri e, a causa della finzione, in perenne discussione con la mediocrità della realtà. […] Per questo dobbiamo continuare a sognare, leggere e scrivere, la maniera più efficace che abbiamo trovato per alleviare la nostra condizione mortale, per sconfiggere il tarlo del tempo e trasformare in possibile l’impossibile».