Il Rapido 904 sventrato dall'esplosione - Ansa
Ricordare è doloroso, ma necessario. Per provare a chiudere le ferite, ma anche per non lasciare che l’oblio sbiadisca il bisogno di verità e giustizia. Da 40 anni San Benedetto Val di Sambro, piccolo centro adagiato sui dolci pendii dell’Appennino bolognese, commemora la strage del Rapido 904. E da 50 anni fa lo stesso con quella precedente dell’Italicus. Due attentati nello stesso punto, la Grande galleria dell’Appennino. Nel ’74 la bomba scoppiò all’uscita dal tunnel mentre dieci anni più tardi, in una crudele replica, l’esplosione avvenne sotto la montagna. E fu anche peggio della prima volta. Furono 12 i morti del 4 agosto di mezzo secolo fa e 16 quelli del 23 dicembre 1984, più 267 feriti.
Domani la signora Loretta Pappagallo parlerà nella commemorazione a San Benedetto, in rappresentanza dell’Associazione strage treno 904. Quella maledetta sera si trovava sulla nona carrozza del Napoli-Milano, dove una mano assassina piazzò l’ordigno. Era salita a Firenze, a Santa Maria Novella: stava tornando a Milano per il lavoro dopo aver lasciato il figlioletto dai nonni, a Empoli. «All’epoca - racconta - lavoravo in regia di una tv privata. Avrei dovuto prendere il direttissimo che sarebbe arrivato a Milano alle 21.30, invece siccome avevo promesso a un collega che gli avrei comprato una cintura per Natale, decisi di salire sul treno successivo, il Rapido 904. Proprio a pochi metri da me, si seppe poi dalle indagini, sulle reticelle dei bagagli, qualcuno aveva depositato la valigetta con il plastico. Mi sedetti in uno scompartimento in cui c’era la famiglia Taglialatela. Entrai e loro stavano sentendo le canzoni di Mario Merola, poi avevano iniziato a mangiare qualcosa visto che era quasi ora di cena. Io però volevo stare tranquilla e sonnecchiare, quindi mi alzai e mi spostai nella carrozza dietro. Quella decisione mi ha salvato la vita, perché quella povera famiglia poi è stata investita in pieno dall’esplosione».
Il tempo di sistemarsi nel nuovo posto e accade l’inimmaginabile. Sono le 19.08, l’Italia sta correndo a comprare gli ultimi regali. Sul Rapido 904 invece il tempo si ferma. «Appena seduta vidi un grande flash, e poi udii un botto terrificante» ricorda la signora Pappagallo. La voce si incrina, tornare indietro di 40 anni fa ancora male. «Per anni non ho potuto guardare i fuochi d’artificio, se scoppiava il temporale andavo a nascondermi come i bambini… Poi grazie alla mia psicologa ho fatto un grande lavoro su me stessa. Per superare il trauma sono tornata in quei luoghi, dove ho avuto modo di conoscere altre persone. Da allora ogni anno partecipo alle commemorazioni». Tra gli incontri più significativi c’è quello con Paolo Vandelli, uno dei ferrovieri in servizio a San Benedetto Val di Sambro che fu tra i primi a spingersi nel buio della galleria per portare i primi soccorsi, trovandosi di fronte una scena di guerra. «Siamo entrati con il mezzo di servizio insieme al collega Giuseppe Facchini – ricorda – C’era tanto fumo, si respirava a fatica. Ci siamo trovati di fronte i superstiti che vagavano sui binari: abbiamo caricato i feriti più gravi e abbiamo aiutato gli altri ad avviarsi verso l’uscita. Ricordo ancora quell’orrenda puzza di bruciato e il sangue sul pavimento del nostro mezzo…».
Nell’oscurità, tra i sopravvissuti, c’è anche Loretta Pappagallo. «Non riuscivo a ricordare come ne ero venuta fuori perché la carrozza 9 si era sventrata e la mia, la 10, si era accartocciata – spiega - Poi parlando con la psicologa i ricordi sono riemersi piano piano… Pianti, grida disperate. Mi sono ritrovata a gattonare sui binari. Ho perso lucidità solo relativamente, capivo dove mi trovavo. Avevo fratture alle gambe e mi sono appoggiata al vagone. Attorno urlavano di non muoversi perché era in arrivo da Milano un altro rapido che avrebbe dovuto incrociarsi con il nostro. Doveva essere uno sterminio: per fortuna a Bologna hanno interrotto la circolazione…». A questo punto la voce si spezza di nuovo. «Preferisco fermarmi qui, stanno affiorando brutti ricordi… Mi scusi».
C’è anche chi è rimasto in silenzio per 40 anni. Giovanni Manzo, napoletano, era il macchinista del Rapido 904. Non ha mai pronunciato una parola in pubblico: ha partecipato alle cerimonie, restandosene in disparte come uno qualunque. Per anni, il 23 dicembre, è uscito dalla biglietteria di Napoli centrale (dove era stato trasferito) per onorare i caduti, senza dire nulla. A volte, in totale anonimato, accompagna ancora a qualche evento la figlia Rosaria, nel frattempo diventata presidente dell’Associazione familiari. «Papà è fatto così, anche a noi in famiglia non ha mai detto nulla dell’attentato. Quella sera telefonò a mia madre, che era in preda all’angoscia per dirle solo “Sto bene”. Gli investigatori volevano interrogarlo, ma lui pensava solo a tornare a casa il più in fretta possibile».
È toccato a lei, in questi anni, alzare la voce per rinfrescare la memoria della strage di Natale. «Adesso se ne parla perché è il 40° anniversario, ma per troppo tempo si è taciuto. Se la sono dimenticata persino i bolognesi, che ricordano solo il 2 agosto 1980. Eppure la bomba sul treno segue quella della stazione, in una linea di sangue che parte dagli anni ’70 e arriva agli attentati del ’92-’93. Quello nella galleria fu un attentato-cerniera tra la strategia della tensione e la stagione delle stragi mafiose. Hanno dato l’ergastolo al boss Pippo Calò (che si è sempre proclamato innocente, ndr), ma restano molte zone d’ombra. A partire da quel “coacervo di interessi convergenti” evocati nella sentenza d’assoluzione di Totò Riina (nei suoi confronti non furono trovate prove concrete, ndr). Fu insomma Cosa Nostra a eseguire, ma indagini e sentenze parlano di legami e connessioni: tra chi? Sarebbe ora che ce lo dicessero. Perché fino a oggi sono usciti solo i nomi dei criminali. Mai di altri». Tra i condannati ci fu Friedrich Schaudinn, l’artificiere tedesco che confezionò l’ordigno usando l’esplosivo fornito dalla mafia. «Fu aiutato a fuggire mentre era ai domiciliari: non fece l’autostop, ma prese l’aereo – osserva Manzo -. E al ritorno in patria gli fu pure riconsegnato il passaporto…. Non credo che i boss possano fare tutto questo». Intervistato da Michele Santoro, Schaudinn rivelò di essere stato aiutato a scappare dai servizi segreti italiani. Retroscena o depistaggio? Di sicuro, zone grigie mai illuminate. «Cosa Nostra colpì per distogliere l’attenzione da se stessa alla vigilia del maxi processo, per indicare che il nemico dello Stato era altrove. Ma in tutti questi anni si è capito che in questa storia non ci sono buoni e cattivi. La realtà è più complessa. Parlare di strage mafiosa significa ridurne la portata». Ad allargare lo sguardo ci sta provando la Dda di Firenze, che a febbraio ha riaperto l’indagine proprio per chiarire i presunti “legami” con servizi segreti e trame eversive. «Nessuno ci ha avvisato né ci ha chiesto nulla. Noi l’abbiamo saputo dai giornali, che peraltro poi non ne hanno più scritto. C’è sempre stata poca attenzione sul rapido 904, per non parlare dell’Italicus. E meno se ne parla, più le due stragi scivolano nel dimenticatoio».