La forza inaspettata di tante giovani che cercano di mettersi alle spalle un passato di violenza e sopraffazione, mettendosi a fianco di chi è malato Il coraggio di liberarsi dalle violenze e ricominciare a vivere con dignità. Accolte dalla Comunità Giovanni XXIII, le tre ragazze hanno saputo tirare fuori una forza inaspettata. E si sono integrate. Così sfidano, tra i sacrifici di ogni giorno, anche il rischio di contagiarsi con il Covid-19
Quando ha accettato l’offerta di lavoro come addetta alla sanificazione di una casa di riposo, gli operatori che ne seguono il percorso le hanno chiesto se avesse paura di lavorare in un luogo in cui avrebbe potuto essere contagiata o magari assistere alla morte di chi poteva aver contratto il virus. «Ho visto molti uomini morire e donne violentate. Quello che possono fare ora è stare vicino a chi è solo e lontano dalla famiglia, loro hanno me, ci sono io per loro». Costretta a prostituirsi in Austria e picchiata dallo stesso compagno nigeriano perché in attesa di un figlio che lui non voleva, poi fuggita in Italia e finita sulla strada vittima di altri sfruttatori, Princess ha tirato fuori una forza inaspettata.
Nel turbine di volti, coraggio e solidarietà che attraversa l’Italia stretta nell’emergenza sanitaria, economica e sociale dovuta al Covid-19, ci sono le storie di rinascita e altruismo di chi la guerra, quella vera, l’ha vissuta, ha subìto violenze e torture nei centri di detenzione in Libia, ha sfidato il Mediterraneo. Raccontano dietro nomi falsi perché hanno denunciato e ci sono processi in corso, ma sanno cosa vuol dire essere a disposizione di chi è fragile. Sono le ragazze vittime della tratta per lo sfruttamento sessuale dalla Nigeria e dai paesi dell’Est salvate e inserite nei programmi di inserimento lavorativo dell’associazione Papa Giovanni XXIII.
Le storie di prossimità e vicinanza raccontate dai volontari della Papa Giovanni XXIII spiegano l’impegno che continua per salvare vite: dalla strada e dal virus
Sono infermiere, addette alle pulizie, badanti, addette alle mense e all’assistenza dei disabili. Donne spesso con figli da mantenere nei loro paesi di origine che continuano a lavorare ed impegnarsi da dentro percorsi di inserimento che l’emergenza virus non ha fermato anche grazie a loro. Stella è arrivata in Italia a 25 anni e alla fine dello scorso anno ha preso il diploma di operatore-socio sanitario e a gennaio ha iniziato a lavorare in una cooperativa che cura anziani a domicilio in una delle regioni più colpite dal coronavirus. Alla famiglia con la quale vive da quattro anni, come prevede una delle formule di accoglienza dell’associazione, racconta che i 20 minuti di media imposti per la cura e le esigenze di ognuno diventano molti di più perché ci sono contagiati curati a casa. Sono soli. vogliono un contatto umano, vogliono parlare. Lei allunga il turno per ascoltarli. «È molto stanca, ha uno spazio suo in cui vive in isolamento e non abbiamo contatti, ma è felice di quello che sta facendo. È un modo per ripagare il Paese che sì, l’ha sfruttata, ma l’ha anche accolta e aiutata» dicono di lei a casa.
«Se il datore di lavoro mi chiama ed è importate esserci per far rimane in piedi l’azienda, io devo esserci e conta che io dica sì. Questo mi fa sentire viva e ho una responsabilità» dice Benedetta, che di anni ne ha 25 anni adesso, impegnata nel progetto di riconversione dell’azienda tessile in cui ha ottenuto un contratto di apprendista. Adesso produce mascherine destinate ai presìdi sanitari e alla popolazione della città in cui ha trovato lavoro. È una stiratrice ma ha deciso di non accettare la cassa integrazione e rientrare in fabbrica. Ha una figlia in Nigeria e la solita storia difficile da raccontare. Ultima di 6 fratelli e in estrema povertà era arrivata giovanissima in Italia insieme ad altre due connazionali che un uomo aveva preso e accompagnato da una centro di accoglienza del nord direttamente a casa della “maman”. In due anni sulla strada aveva quasi ripagato il debito, 30mila euro. «Avevo paura per la vita di mia figlia. Ora posso scegliere e per lei ho deciso di rientrare al mio posto». «Anche Benedetta lavora in una delle zone dei focolai ma le nostre ragazze non si tirano indietro perché sono libere» spiega Irene Ciambezi, referente dei progetti antitratta di Apg23. «Le seguiamo anche quotidianamente spiegando loro come seguire tutte le regole per la loro sicurezza. Bisogna uscire dall’idea che vivono in un limbo, che non si sappia che lavoro fanno». L’inserimento lavorativo è la “fase 2” delle loro riabilitazione sociale.
L’associazione, attraverso bandi europei e una rete di enti partner in Francia, Germania, Spagna e Belgio si occupa di formazione e dell’assicurare indipendenza abitativa ed economica dopo la prima accoglienza presso strutture e case famiglia. Nei primi sei mesi vengono assistite sul piano sanitario, psicologico e legale. C’è poi chi prosegue gli studi per la licenza superiore o intraprende percorsi universitari spesso in discipline infermieristiche o scienze dell’educazione. Altre iniziano un tirocinio. «Per queste ragazze impegnarsi, lavorare, essere utili è un motivo forte per vivere. Rimanere chiuse in casa ricorda loro la prigionia e la schiavitù sia in Libia che nel periodo dello sfruttamento – conclude Ciambezi –, per loro lavorare è vivere e vuol dire essere libere».